Come scrive Jean-Paul Besset: "Dopo l'era dei ghiacci
polari, non c'è mai stato un ritmo di estinzione
paragonabile a quello attuale". Durante la quinta
estinzione, avvenuta nell'era del Cretaceo 65 milioni di
anni fa, si è prodotta la fine dei dinosauri e di altri
animali di grosse dimensioni, probabilmente a causa
dell'impatto della Terra con un asteroide, ma questi
mutamenti sono avvenuti in un arco di tempo ben più
lungo rispetto a quello delle catastrofi attuali. Oggi,
inoltre, a differenza delle epoche precedenti, l'uomo è
direttamente responsabile della "deplezione" in corso
della materia vivente e potrebbe addirittura esserne
vittima. Secondo il rapporto di Belpomme sui tumori e le
analisi del rinomato tossicologo Narbonne, la fine
dell'umanità dovrebbe avvenire ancor prima del previsto,
ovvero verso il 2060, a causa della sterilità diffusa
dello sperma maschile prodotta dall'effetto di pesticidi
e altri Pop o Cmr (i tossicologi definiscono Pop gli
inquinanti organici persistenti di cui i Cmr -
cancerogeni, mutageni, reprotossici - rappresentano la
specie più "innocua").
Dopo decenni di frenetico spreco, siamo entrati in una
zona di turbolenza, in senso proprio e figurato.
L'accelerazione delle catastrofi naturali - siccità,
inondazioni, cicloni - è già in atto. Ai cambiamenti
climatici si aggiungono le guerre del petrolio (alle
quali seguiranno quelle dell'acqua) e probabili
pandemie, e si prevedono addirittura catastrofi di tipo
biogenetico. Ormai è noto a tutti che stiamo andando
verso il collasso definitivo.
Restano da calcolare solo la velocità con cui stiamo
precipitando nel baratro e il momento dello schianto.
Secondo Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca
sull'Antartico all'università neozelandese di Victoria,
"proseguire con questa dinamica di crescita ci metterà
di fronte alla prospettiva di una scomparsa della
civiltà così come la conosciamo, non fra milioni di anni
o qualche millennio, ma entro la fine di questo secolo".
Quando i nostri figli avranno sessant'anni, se il mondo
esisterà ancora, sarà molto diverso. È noto inoltre che
la causa di tutto ciò sono i nostri stili di vita
fondati su una crescita economica illimitata. Parlare di
"decrescita" significa dunque lanciare una sfida,
azzardare una provocazione: all'interno del nostro
immaginario dominato dalla religione della crescita e
dell'economia, asserire la necessità della decrescita
risulta letteralmente blasfemo e chi sostiene simili
posizioni è quantomeno considerato iconoclasta, ma la
realtà è che viviamo semplicemente in una condizione del
tutto schizofrenica. Il presidente francese Chirac, per
esempio, ha dichiarato alla Conferenza dell'Onu
sull'ambiente di Johannesburg (2002): "La casa brucia e
noi intanto guardiamo da un'altra parte". Inoltre, ha
affermato che i nostri stili di vita sono insostenibili,
dal momento che gli europei consumano l'equivalente di
tre pianeti. Parole sante. Purtroppo, mentre pronunciava
questi discorsi, i suoi uomini, dietro suo mandato,
lavoravano all'Unione europea affinchè il Gaucho e il
Paraquat, terribili pesticidi che uccidono le api,
provocano il cancro negli uomini e li rendono sterili,
non fossero iscritti nell'elenco dei prodotti
proibiti. Inoltre, Chirac, Blair e Schroeder si sono
adoperati per ridurre drasticamente l'impatto della
direttiva Reach (Registration Evalutation and
Authorisation of Chemicals).
È inutile stilare la lista delle catastrofi ecologiche
già in atto o preannunciate, lo scenario è fin troppo
noto, il problema è che non riusciamo ad afferrarne la
portata: la catastrofe è inimmaginabile fino a quando
non si è realmente prodotta. Siamo anche perfettamente
consapevoli di ciò che sarebbe necessario fare, ovvero
cambiare orientamento, ma in pratica non facciamo nulla.
"Guardiamo altrove", e intanto la casa continua a
bruciare. A nostra discolpa è possibile affermare che i
grandi uomini della politica e dell'economia lavorano
per lasciarci in questo immobilismo - per esempio il
World Business Council for Sustainable Development
(Wbcsd), il gruppo di industriali desiderosi di
preservare i loro profitti e il pianeta, ha al proprio
interno i principali inquinatori del pianeta ed è stato
definito da un ex ministro francese dell'Ambiente "un
club di criminali in giacca e cravatta". Sono proprio
loro a continuare a gettare benzina (proveniente dagli
ultimi barili di petrolio) sul fuoco e intanto
continuano a dire a gran voce che questo è l'unico modo
per spegnerlo. Si continua a mantenere i medesimi
orientamenti, addirittura perseguendoli con maggior
forza, al punto che è lecito riformulare la domanda
posta già nel 1987 dal sociologo Jacques Godbout
all'interno di un libro premonitore e poco noto: "La
crescita è davvero l'unica via d'uscita alla crisi della
crescita?".
Secondo l'amministratore delegato del nostro villaggio
globale, George W. Bush, la risposta è ovviamente
affermativa. Il 14 febbraio 2002, a Silver Spring,
davanti all'Amministrazione americana della
meteorologia, ha infatti dichiarato che "la crescita è
la chiave del progresso dell'ambiente, poichè fornisce
le risorse che permettono di investire nelle tecnologie
pulite; rappresenta dunque la soluzione e non il
problema". Non è da meno Chirac quando, in occasione del
discorso di auguri alla nazione per il 2006, ha scandito
in modo quasi incantatorio: "Crescita! Crescita!
Crescita!". Simili orientamenti si conformano alla più
stretta ortodossia economica. Secondo l'economista
Wilfred Beckerman, "è evidente che, per quanto la
crescita economica sia, abitualmente e in un primo
tempo, causa di degrado ambientale, in fin dei conti,
per la maggior parte dei paesi, il modo migliore – e
probabilmente l'unico - per avere condizioni ambientali
decenti è arricchirsi".
Questa posizione "filocrescita" è ampiamente condivisa.
Sulla stampa, l'annuncio della ripresa americana o
cinese è sempre dato con toni trionfalistici. I piani di
rilancio (francotedeschi, italiani o europei) si fondano
sempre tutti su grandi opere (infrastrutture e
trasporti), che non possono che deteriorare
ulteriormente le condizioni, in particolare quelle
climatiche. A fronte di questa situazione, il silenzio
della sinistra, di socialisti, comunisti, verdi,
dell'estrema sinistra e addirittura dei movimenti
"altermondialisti", lascia interdetti. A sinistra la
crescita è, infatti, considerata come fonte di soluzione
della questione sociale, poichè crea posti di lavoro e
ne favorirebbe una ripartizione più equa. Jean Gadrey
sintetizza bene questa posizione: "Se è vero che la
crescita non può risolvere tutti i problemi, è
giustamente considerata da molti come chiave in grado di
creare
margini di manovra e di migliorare alcune dimensioni
della vita quotidiana, dell'impiego ecc... Tuttavia,
così facendo, si elude la questione del suo contenuto
qualitativo (chi si è migliorato?), o della sua
ripartizione (la 'condivisione del valore aggiuntò), e
soprattutto si eludono alcune questioni relative alla
sua reale entità che, se dovessero essere rese note,
rischierebbero di indebolire la 'religionè dei tassi di
crescita".
Solo qualche rara voce (Jean-Marie Haribey, Alain
Lipietz e i responsabili di Attac) esce dal coro e
sostiene una "decelerazione della crescita". Anche se si
tratta di una posizione che, pur partendo da buone
intenzioni, si rivela in fin dei conti inefficace,
poichè ci priva nel contempo dei benefici della crescita
e dei vantaggi della decrescita. Michel Serres paragona
l'ecologia riformista "a una nave che si dirige alla
velocità di 25 nodi verso una parete rocciosa e sulla
quale si scaglierà inevitabilmente, mentre sul ponte di
comando il capitano ordina di diminuire la velocità di
un decimo, ma non di invertire la rotta".
Decelerare significa esattamente questo.
Nel 2004, il giornalista del settimanale francese
"Politis" specializzato nelle questioni riguardanti
l'ecologia è stato costretto alle dimissioni dopo aver
messo in luce in un suo articolo la debolezza
dell'opposizione su questi temi. Il dibattito che ne è
scaturito ha rivelato tutto il disagio della sinistra.
Il nodo della questione, scrive un lettore della
rivista, sta certamente "nella capacità di sfidare una
sorta di pensiero unico, condiviso da quasi tutta la
classe politica francese, secondo cui la nostra felicità
deve passare per un aumento della crescita, della
produttività, del potere d'acquisto e dunque per un
aumento dei consumi". Come ha osservato Hervè Kempf a
proposito di questo caso: "La sinistra è davvero
disposta a proclamare la necessità di ridurre il consumo
materiale, cardine dell'ecologismo?".
A rigor del vero è necessario ammettere che, da non
molto, in Francia, il tema della decrescita è oggetto di
dibattito all'interno dei verdi, della Confèderation
paysanne, del movimento altermondialista, ma anche in
alcuni settori dell'opinione pubblica, soprattutto
grazie al giornale " La Decroissance " promosso
dall'associazione Casseurs de pub. Tuttavia, molti hanno
preso posizioni aprioristicamente a favore o contro,
senza preoccuparsi di informarsi ulteriormente e
deformando, se necessario, le rare analisi proposte.
Poichè sono stato spesso chiamato in causa come "teorico
della decrescita" (anche da "Le Monde diplomatique"), mi
pare opportuno dissipare alcuni malintesi e chiarire in
modo preciso i termini della questione. La mia posizione
è esattamente questa: dal momento che un cambiamento
radicale è una necessità assoluta, la scelta di una
società della decrescita rappresenta una sfida che vale
la pena di cogliere per evitare una brutale e drammatica
catastrofe. Questo è il tema del libro.
Il termine "decrescita" in realtà è stato introdotto
solo di recente all'interno del dibattito economico,
politico e sociale, nonostante le idee sulle quali si
fonda abbiano una storia molto lunga. Senza dover
risalire alle utopie del primo socialismo, nè alla
tradizione anarchica rinnovata dal situazionismo, il
progetto di una società paragonabile a quella che
intendo per società della decrescita era già stato
formulato alla fine degli anni Sessanta da teorici come
Ivan Illich, Andrè Gorz, Francois Partant e Cornelius
Castoriadis. Il fallimento dello sviluppo nel Sud del
pianeta e la perdita di punti di riferimento nel Nord
hanno portato molti analisti a mettere in discussione la
società dei consumi, il sistema di rappresentazione che
la sottende, il progresso, la scienza, la tecnica. A
questo si è aggiunta la presa di coscienza della crisi
dell'ambiente.
L'idea di decrescita nasce dunque sia dalla
consapevolezza della crisi ecologica sia dalla critica
della tecnica e dello sviluppo.
Fino a qualche anno fa, tuttavia, il termine
"decrescita" non figurava in alcun dizionario che
trattasse di economia e società, mentre si potevano
trovare alcuni concetti simili, come "crescita zero",
"sviluppo sostenibile" e naturalmente "stato
stazionario". Nondimeno, l'espressione "decrescita" ha
già una storia relativamente complessa ed è ricca di
significati sul piano politico ed economico. È tuttavia
necessario chiarirne il significato. Alcuni analisti
malevoli sostengono che si tratta di un concetto vecchio
per poter così liquidare più facilmente le proposte
sovversive avanzate dagli attuali "obiettori della
crescita". Francois Vatin, per esempio, sostiene che già
Adam Smith aveva proposto una teoria della decrescita
nei capitoli 7 e 9 de La ricchezza della nazioni in cui
evoca un ciclo di vita delle società "che le fa passare
dalla crescita accelerata (il caso delle colonie
dell'America del Nord) alla decrescita (il caso del
Bengala) attraverso uno stato stazionario (il caso della
Cina)". In realtà, Vatin confonde il concetto di
regressione con quello di decrescita. Nella mia
accezione, decrescita non identifica nè lo stato
stazionario dei classici dell'economia, nè una forma di
regressione, di recessione o di "crescita negativa", e
neppure la crescita zero - benchè alcuni aspetti della
decrescita si ritrovino in quest'ultimo concetto.
In linea con i pubblicitari, i media chiamano ormai
"concept" qualsiasi progetto alla base del lancio di un
nuovo prodotto, anche di tipo culturale, e non stupisce
dunque il fatto che mi sia stato chiesto quali siano i
contenuti del "nuovo concept" decrescita. A costo di far
dispiacere qualcuno, dichiaro subito che decrescita non
è un concetto, almeno non nel senso tradizionale del
termine, è improprio parlare di "teoria della
decrescita", come gli economisti hanno fatto per le
teorie della crescita, e soprattutto che decrescita non
identifica un modello pronto per l'uso. Decrescita non è
il termine simmetrico di crescita, ma è uno slogan
politico con implicazioni teoriche, è un "termine
esplosivo", dice Paul Aries, che cerca di interrompere
la cantilena dei drogati del produttivismo.
Decrescita è una parola d'ordine che significa
abbandonare radicalmente l'obiettivo della crescita per
la crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che
la ricerca del profitto da parte dei detentori del
capitale e le cui conseguenze sono disastrose per
l'ambiente. A rigor del vero, più che di "de-crescita",
bisognerebbe parlare di "a-crescita", utilizzando la
stessa radice di "a-teismo", poichè si tratta di
abbandonare la fede e la religione della crescita, del
progresso e dello sviluppo.
Decrescita è semplicemente uno slogan che raccoglie
gruppi e individui che hanno formulato una critica
radicale dello sviluppo e interessati a individuare gli
elementi di un progetto alternativo per una politica del
doposviluppo. Decrescita è dunque una proposta per
restituire spazio alla creatività e alla fecondità di un
sistema di rappresentazioni dominato dal totalitarismo
dell'economicismo, dello sviluppo e del progresso. I
limiti della crescita sono definiti, nel contempo, sia
dalla quantità disponibile di risorse naturali non
rinnovabili sia dalla velocità di rigenerazione della
biosfera per le risorse rinnovabili. Storicamente, nella
maggior parte delle società, queste risorse erano
considerate essenzialmente beni comuni (commons) che,
nella maggioranza dei casi, non appartenevano a nessun
singolo individuo. Ciascuno poteva goderne nei limiti
delle regole d'uso della comunità. La stessa cosa
avveniva per le risorse rinnovabili: l'aria, l'acqua, la
fauna e la flora selvatiche, i pesci degli oceani e dei
fiumi, e, con alcune restrizioni, i pascoli, gli alberi
secchi o il legno marcio e i pezzi di legna. L'uso delle
risorse non rinnovabili, i minerali del sottosuolo (tra
cui l'olio di terra, il petrolio), era governato da
regimi di regolamentazione posti sotto il controllo del
principe o dello stato affinchè vi si attingesse con
criteri consoni alla loro esauribilità. Più
generalmente, l'assenza di sistematica mercificazione
dei beni naturali e la consuetudine limitavano l'uso di
queste risorse a livelli accettabili. La rapacità
dell'economia moderna e la scomparsa dei vincoli
comunitari, quelli che Orwell chiama "decenza comune",
hanno trasformato l'uso di queste risorse in saccheggio
sistematico.
Da questo punto di vista, il caso delle balene rivela
chiaramente la difficoltà rappresentata dalla protezione
dell'ambiente. L'invenzione di Steven Foyn nel 1870 del
cannone-arpione esplosivo ha favorito
l'industrializzazione della caccia alla balena. Negli
anni Venti è schizzato in alto il numero di baleniere e
nel 1938 è stata raggiunta la cifra record di 54.835
balene catturate. Lo "stock" di balene, come è noto a
tutti, è ormai in via di esaurimento. L'industria della
pesca si è dunque spostata su nuove specie di dimensioni
più piccole - la balena blu, la balenottera, il
capodoglio. L'introduzione di nuove materie grasse è
avvenuta tuttavia troppo tardi e, secondo la Commissione
baleniera internazionale, nell'Antartico, prima dei
recenti provvedimenti di divieto della pesca, restavano
meno di 1000 balene blu, 2000 balenottere e 3000
capodogli. Diverse specie di balene sono totalmente
scomparse, mentre all'inizio del XX secolo esistevano
centinaia di migliaia di rappresentanti per ciascuna
razza.
In definitiva, si prescinde dall'ambiente, lo si pone al
di fuori della sfera degli scambi mercantili e nessun
dispositivo si oppone alla sua distruzione. Ma in
realtà, la concorrenza e il mercato, che ci forniscono
il cibo alle migliori condizioni, hanno effetti
disastrosi sulla biosfera.
Nulla interviene a limitare il saccheggio delle risorse
naturali, la cui gratuità permette di abbassare i costi.
L'ordine naturale non è, infatti, in grado di opporsi a
queste dinamiche, per esempio non è riuscito a salvare
le Isole Mauritius o le balene blu della Terra del Fuoco
e solo l'incredibile fecondità naturale dei merluzzi
potrà forse risparmiare loro la sorte a cui vanno
incontro le balene. Anche se non possiamo esserne certi,
poiché l'inquinamento degli oceani rappresenta un grave
pericolo per questa leggendaria fecondità. Il saccheggio
dei fondali marini e delle risorse alieutiche sembra
irreversibile.
La dilapidazione di minerali prosegue in modo
irresponsabile. I cercatori d'oro individuali, come i
garimpeiros d'Amazzonia, o le grandi società australiane
in Nuova Guinea non arretrano di fronte a nulla per
procurarsi l'oggetto della loro cupidigia. Peraltro, nel
nostro sistema, ogni capitalista, come ogni homo
oeconomicus, è una sorta di cercatore d'oro.
Gli indiani della British Columbia, costa occidentale
del Canada (i kwakiutl, haida, tsimshian, tlingt ecc.),
hanno invece dato un buon esempio di rapporti armoniosi
tra uomo e biosfera. Secondo una leggenda, i salmoni
erano esseri umani come loro che vivevano in tribù in
fondo al mare, dove avevano le tende, e d'inverno
decidevano di sacrificarsi per i loro fratelli che
abitavano sulla terraferma, allora diventavano salmoni e
si dirigevano verso le foci dei fiumi. Nella stagione in
cui risalivano il fiume, gli indiani accoglievano il
primo salmone come un ospite importante e lo mangiavano
durante una cerimonia. Il suo sacrificio era tuttavia
considerato un prestito provvisorio e ne riportavano in
mare lo scheletro e i resti permettendo così la
rinascita dell'ospite precedentemente mangiato. In
questo modo si perpetuava l'armoniosa convivenza tra
salmoni e uomini. Con l'arrivo dell'uomo bianco e
l'insediamento a ogni estuario di industrie conserviere
si è realizzata una corsa al profitto che ha portato una
drastica diminuzione di salmoni. Secondo gli indiani, i
salmoni sono scomparsi perchè i bianchi non hanno
rispettato il rituale... E non si può dare loro torto.
La relazione di queste tribù con la natura, come quella
della maggior parte delle società tradizionali, si fonda
sull'armonioso inserimento dell'uomo nel cosmo. In
Siberia, si muore nella foresta per restituire agli
animali ciò che si è preso da loro.
Queste concezioni implicano rapporti di reciprocità tra
gli uomini e il resto dell'universo: gli uomini sono
pronti a darsi a Gaia (personificazione mitologica della
Terra), come Gaia
si è
data a loro. Eliminando la capacità di rigenerazione
della natura, riducendo le risorse naturali a una
materia prima da sfruttare invece di attingerne, la
modernità ha eliminato questo rapporto di reciprocità.
La
condizione della nostra sopravvivenza sta certamente
nella ricostruzione di un rapporto armonioso con la
natura, sulle orme di una concezione prearistotelica
della relazione uomo-natura. MacMillan, economista
americano del XXI secolo impegnato nella salvaguardia
dei condor, sosteneva: "Dobbiamo salvare i condor, non
tanto perché abbiamo bisogno dei condor, ma soprattutto
perchè, per poterli salvare dobbiamo sviluppare quelle
qualità umane di cui avremo bisogno per salvare noi
stessi". All'interno della protezione dell'ambiente,
Jean-Marie Pelt introduce i concetti di gratuità e di
bellezza. Il problema reale è che si continua a parlare
di ecologia, sono state adottate importanti misure di
protezione, ma continuiamo a non invertire radicalmente
la rotta.
Nonostante l'ottimismo del filosofo francese Michel
Serres, gli alberi dotati della capacità i giudizio non
devono nascondere la foresta minacciata. La
giurisprudenza americana più recente va nel senso di un
rafforzamento dell'appropriazione giuridica dei processi
naturali da parte dell'uomo sempre più spinta. A questo
si aggiunge che, per abitudine o incoscienza, le
istituzioni tendono a incoraggiare ogni forma di
inquinamento (pesticidi, concimi chimici) con esenzioni
fiscali e continuano a finanziare progetti che
distruggono la biosfera dei paesi del Sud con il
pretesto della lotta contro la povertà. Si è addirittura
arrivati a pensare che l'unico rimedio alla tragedia
della scomparsa di numerosi beni comuni fosse la loro
completa eliminazione. Secondo i convinti sostenitori
della deregulation, solo l'interesse privato e la
rapacità degli individui potrebbero limitare la sua
dismisura! Bisognerebbe privatizzare l'acqua e l'aria
(ma anche i pesci degli oceani
e i
batteri delle foreste tropicali) per salvarle dai
predatori. » quanto fanno le società transnazionali, con
il sostegno degli stati nazionali e delle istituzioni
internazionali, contro le quali le popolazioni insorgono
in tutto il pianeta. La gestione dei limiti della
crescita è diventata una questione intellettuale e
politica. La ricerca teorica sulla decrescita si colloca
all'interno di un movimento più ampio di riflessione
sulla bioeconomia, sul doposviluppo e sull'a-crescita..
da Serge Latouche, La scommessa della
decrescita, Feltrinelli, Milano 2007 |