Ma quanto è pesante la nostra impronta idrica...

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Venerdì, 24 Febbraio 2012

 

Rimpiazzare urgentemente il Prodotto Interno Lordo (Pil) con nuovi indicatori di benessere e progresso, eliminare definitivamente i perversi sussidi che i governi continuano a dare alle attività distruttive dell'ambiente (in campo energetico, infrastrutturale, forestale, agricolo, ittico ecc.), trasformare il sistema di governance mondiale per affrontare seriamente una nuova strada per un futuro meno insostenibile dell'attuale.

Questi alcuni dei contenuti di un messaggio reso noto, durante l'ultimo Governing Council del Programma Ambiente delle Nazioni Unite (Unep) tenutosi in questi giorni e firmato da alcuni grandi studiosi accomunati dall'aver ottenuto, nel corso degli anni, il prestigioso Premio Blue Planet, tra cui Bob Watson, già presidente dell'Ipcc, Robert May, dell'Università di Oxford e già presidente della Royal Society, Paul Ehrlich e Harold Mooney due grandi ecologi dell'Università di Stanford, Syukuro Manabe, noto climatologo dell'Università di Princeton, Jim Hansen direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA, uno dei maggiori climatologi mondiali, Jim Lovelock, lo scienziato e scrittore originatore della teoria di Gaia.

Nel frattempo, tra i diversi "Planetary Boundaries", i famosi confini planetari che la comunità scientifica ha iniziato ad indicare e che l'umanità deve cercare di non sorpassare per evitare di entrare in un ambito di assoluta insostenibilità del nostro stesso sviluppo, il tema della quantità e della qualità dell'acqua assume sempre di più un importanza crescente.

La scarsità idrica non è più un problema limitato alle regioni più povere del Pianeta: l'acqua è oggi diventato un problema globale che interessa numerosi ecosistemi fluviali e lacustri della nostra magnifica Terra e tantissime comunità umane.

La prestigiosa rivista scientifica dei Proceedings della National Academy of Sciences statunitense, i famosi PNAS (www.pnas.org) ha pubblicato, in questi giorni, un interessantissimo studio sull'impronta idrica dell'umanità realizzato da Arjien Hoekstra, dell'Università di Twente di Enschede in Olanda, l'originatore del concetto di impronta idrica (vedasi www.waterfootprint.org) e dal suo collaboratore Mesfin Mekonnen (il titolo del lavoro apparso sui PNAS è proprio "The water footprint of humanity") che fa il punto, dopo tante pubblicazioni sul tema, aggiornato dell'impronta idrica dell'intera umanità.

Come abbiamo più volte scritto nelle pagine di questa rubrica, il concetto di impronta idrica scaturisce dal concetto di acqua virtuale che è stato sviluppato per la prima volta da John Anthony Allan del King's College di Londra; per acqua virtuale si intende il volume di acqua necessaria per produrre un bene o un servizio. Si tratta dell'acqua necessaria per un ciclo di vita di un prodotto che normalmente non viene considerata quando si parla dei nostri consumi di acqua.

Tanto per fare un esempio, una lattina di Coca cola contiene 0,35 litri di acqua ma se contiamo lo zucchero in essa contenuto possiamo verificare che questo richiede una media di 200 litri per essere coltivato e quindi raffinato. Allo stesso modo sono necessari 2.900 litri di acqua per produrre una camicia di cotone e 8.000 litri per ottenere una paio di scarpe in cuoio, che corrispondono alla quantità di acqua necessaria ad allevare la mucca da cui il cuoio proviene e ultimarne il processo di lavorazione fino al prodotto finito.

Come ci ricorda il lavoro di Hoekstra e Mekonnen apparso sui PNAS che sistematizza la quantificazione e la mappatura dell'impronta idrica dell'umanità , l'acqua utilizzata per l'agricoltura riguarda il 92% del consumo globale di acqua dolce, quella per la produzione industriale il 4.4% e quella domestica il 3.6%.

Gli autori dello studio stimano poi l'impronta idrica per ogni nazione e per ciascun settore economico. Stimano inoltre l'impronta idrica per un cittadino medio in ogni paese, così come l'impronta idrica associata alla produzione di un certo numero di prodotti agricoli.

Negli ultimi anni l'impronta idrica, per la quale è stato avviato un apposito processo ISO (International Standard Organization) per raggiungere un'apposita certificazione standardizzata ufficiale relativa alle sue procedure di calcolo e di comunicazione, è divenuta sempre di più uno strumento apprezzato per valutare il quantitativo totale di acqua nei processi produttivi e nei beni di consumo come le bevande, le varie fonti di cibo e i capi d'abbigliamento.

L'impronta idrica si sta affiancando al concetto di impronta di carbonio (sul quale si sta procedendo alla realizzazione di un'apposita certificazione ISO, il cui processo è brillantemente illustrato nel bel libro di Daniele Pernigotti "Carbon Footprint" Edizioni Ambiente) che sta guidando aziende e consumatori nell'identificare e nel ridurre l'impatto in termini di emissioni di gas a effetto serra rilasciate delle proprie attività, come importante indicatore settoriale che sta stimolando un processo di consapevolezza su come e dove la preziosissima risorsa dell'acqua venga utilizzata.

L'impronta idrica, infatti, è un indicatore di utilizzo dell' acqua dolce che registra nel'uso diretto e quello indiretto da parte di consumatori o produttori.

L'impronta idrica derivante dalle nostre abitudini di consumo è notevolmente superiore al dato di consumo diretto di acqua ed è in gran parte determinata dal consumo di cibo e altri prodotti agricoli.

L'impronta idrica di un singolo, di una comunità o di un'azienda viene definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre i beni e i servizi consumati dall'individuo e dalla comunità o prodotti dall'attività commerciale. Il consumo di acqua è misurato in termini di volumi di acqua consumati (evaporati) e/o inquinati per unità di tempo. L'impronta idrica è, da un punto di vista geografico, un indicatore esplicito che non si limita a mostrare solo i volumi di acqua utilizzati e inquinati, ma anche la loro provenienza geografica.

L'impronta idrica costituisce la somma di tre componenti che sono state definite blu, verde e grigia, come abbiamo già ricordato nelle pagine di questa rubrica.

L'impronta idrica "blu" è rappresentata dal volume di acqua dolce sottratta al ciclo naturale e quindi prelevata dalle acque superficiali e sotterranee (ossia fiumi, laghi e falde acquifere) per scopi domestici, industriali o agricoli (in quest'ultimo caso, per l'irrigazione).

L'impronta idrica "verde" costituisce il volume di acqua piovana traspirata dalle piante durante la coltivazione, mentre l'impronta idrica "grigia" rappresenta il volume di acqua inquinata, quantificata come il volume di acqua necessario per diluire gli inquinanti al punto che la qualità delle acque possa tornare al di sopra degli stessi standard di qualità.

Sul sito del Water Footprint Network gli studiosi dell'impronta idrica ci ricordano che per ottenere un chilogrammo di bistecca sono necessari 15.000 litri di acqua (distinta per il 93% verde, il 4% blu ed il 3% grigia) con ampie variazioni intorno a questa stima media globale. L'impronta precisa di una bistecca dipende infatti da tanti fattori, come il tipo dei sistemi di produzione e la composizione e l'origine dell'alimentazione dei bovini.

L'impronta idrica di un burger di soia di 150 grammi prodotto in Olanda è di circa 160 litri mentre un burger di carne dello stesso paese richiede circa 1.000 litri di acqua.

Per un solo latte macchiato sono necessari almeno 200 litri di acqua che sono equivalenti a più di una vasca da bagno riempita fino all'orlo.

Lo studio pubblicato sui PNAS ci dice che, nell'ordine, Cina, India e Stati Uniti sono i paesi con le maggiori impronte idriche interne ai loro territori. Rispettivamente 1.207, 1.182 e 1.053 miliardi di metri cubi ogni anno. Questi tre Paesi sono responsabili per il 38% dell'impronta idrica globale. Segue il Brasile con 482 miliardi di metri cubi, mentre tra i paesi grandi esportatori di acqua virtuale ci sono Stati Uniti, Cina, India, Brasile, Argentina. I paesi maggiori importatori di acqua virtuale sono invece e sempre nell'ordine, Stati Uniti, Giappone, Germania, Cina, Italia.

Per quanto riguarda l'impronta idrica del consumo a livello delle singole nazioni i primi tre paesi che registrano questo dato come il più alto sono, nell'ordine, la Cina, l'India e gli Stati Uniti. Se andiamo a vedere i dati a livello pro capite relativi all'impronta idrica del consumo per nazione i più alti sono quelli degli Stati Uniti con 2.842 metri cubi pro capite l'anno, mentre al più basso livello dei paesi industrializzati in questa classifica appare il Regno Unito con 1.258 metri cubi pro capite l'anno. La differenza può essere parzialmente spiegata grazie alle differenze nei modelli di consumo. Ad esempio negli USA la media di consumo di carne bovina, una delle maggiori consumatrici di acqua tra le commodities, è di 43 kg pro capite annui, circa 4.5 volte la media globale mentre nel Regno Unito la media è di 18 kg pro capite annui, circa due volte la media globale.

Mediamente ogni individuo usa, ogni anno, 1.385 metri cubi a testa. Le differenze a livello nazionale sono ovviamente enormi.

L'ulteriore appello degli scienziati in occasione del recente Governing Council dell'UNEP e questa ulteriore pubblicazione sull'impronta idrica sono altri due contributi per far sì che la Conferenza ONU sullo sviluppo sostenibile sia capace di darsi mire ambiziose e possa segnare finalmente una svolta internazionale di cui vi è un estremo bisogno. (Gianfranco Bologna - greenreport.it)

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