«Quando si arriva alla crisi del debito, e io parlo come qualcuno che non capisce niente di economia, dobbiamo ricordare che è la cultura, non la guerra, che consolida la nostra identità europea. I francesi, gli italiani, i tedeschi, gli spagnoli e gli inglesi hanno trascorso secoli uccidersi a vicenda. Oggi, siamo stati in pace per 70 anni e nessuno si rende conto di quanto ancora questo sia incredibile. Infatti, l'idea stessa di un guerra tra Spagna e Francia, o Italia e Germania, provoca ilarità. Gli Stati Uniti hanno avuto bisogno di una guerra civile per unirsi davvero. Spero che la cultura e il mercato europeo riusciranno a fare lo stesso per noi».
Nelle parole del semiologo Umberto Eco, raccolte in una recente intervista del britannico The Guardian, si trova in modo chiaro e semplice quale sia la portata rivoluzionaria dell'Unione europea, e quanto sia importante che questa rivoluzione venga definitivamente portata a compimento, coltivata e mantenuta viva e vegeta; rischiamo altrimenti di accorgerci della sua importanza - che va ben oltre alle possibilità economiche offerte da un'area di mercato unico - solamente quando ci sarà ormai sfuggita dalle mani. Un rischio che non possiamo correre.
Al contempo, nelle stesse parole si legge quale siano gli elementi, tra gli altri, massimi deputati a cementificare l'Unione: l'economia e la cultura. Finora, senza dubbio, abbiamo dedicato attenzione pressoché esclusiva all'economia, tralasciando il resto: abbiamo cioé abbondanza di cemento, ma non sappiamo usare l'acqua per farlo legare. Ci troviamo così dentro un mercato libero, si, ma la presenza dei cittadini al suo interno lo riempe di atomi puntiformi e slegati, che cozzano continuamente uno contro l'altro: non abbiamo un progetto culturale, politico e sociale che ci unisca.
L'orizzonte ideale della sostenibilità della nostra società, all'interno del contesto ecosistemico in cui ci troviamo a vivere, può senza dubbio garantire un respiro abbastanza ampio da abbracciare un processo di rinnovamento politico di stampo non solo nazionale, ma europeo (prima che internazionale).
Un orizzonte sicuramente politico, in quanto basa la sua esistenza sulla necessità di compiere delle scelte per la nostra architettura sociale: fuori dall'ideologia neoliberista della crescita a tutti costi (purché sia crescita: e chi rimane indietro, fatti suoi), la domanda che non è possibile eludere è quella che greenreport pone in continuazione: che cosa deve crescere e che cosa no, che cosa vogliamo - democraticamente - decidere di lasciare ai posteri della nostra società, per lasciarla loro carica quanto meno delle possibilità che abbiamo potuto godere noi?
«Se potessi sognare ad occhi aperti, mi immaginerei che noi europei finalmente ci sentissimo come cittadini della cultura - ha dichiarato il ministro della Cultura Lorenzo Ornaghi, in un'intervista al tedesco Die Zeit (qui in una traduzione di italiadallestero.info, ndr). Solo così riusciremo a uscire dalla nostra situazione di progressiva debolezza. La forza dell'Europa è la sua cultura». Eppure proprio la cultura - e un altro esempio calzante sarebbe sicuramente l'ambiente - per far fronte alle esigenze dei conti pubblici in crisi è uno dei primi comparti di pubblico interesse a cadere sotto l'accetta dei contabili.
Quando così non è viene generalmente, e più semplicemente, derubricato da settore nevralgico ad "area di interesse economico". Proprio ieri mattina si è svolta, al Parlamento europeo, l'audizione pubblica della Commissione cultura, sul tema "Definire il futuro dei programmi Ue su cultura e media". «La cultura e la creatività rappresentano settori trainanti della crescita europea - ha dichiarato Silvia Costa, eurodeputata Pd e relatrice del programma pluriannuale "Europa Creativa". Il programma Europa Creativa 2014/2020, presentato dalla Commissione e ora al vaglio del Parlamento lo riconosce, ampliando l'area di intervento alle industrie culturali e creative e incrementando il budget del 37%, per un totale di 1,9 miliardi di euro nei sette anni».
C'è però da ben sperare se, assieme al lato di puro sfruttamento economico della cultura, come si trattasse di un qualsiasi processo industriale, cominciano ad affacciarsi nuove e diverse responsabilità. «Nella mia relazione - ha continuato infatti la Costa - intendo però affermare il valore intrinseco della cultura, rispetto all´approccio troppo economicistico e funzionalistico della Commissione, nonché il dovere di tutelare e valorizzare il comune patrimonio culturale europeo, materiale e immateriale, come elemento fondamentale dell'identità europea».
Esattamente il tasto che è necessario premere, e sul quale non possiamo esimere dall'impegnarci, tutti.
In questo contesto di crisi, dove - a dispetto di statistiche a volte ammiccanti, a volte lugubri - la luce in fondo al tunnel è ancora lontana, sembra più importante seminare le domande giuste, che rendere pervasive risposte approssimative ed affrettate: è proprio qui che il ruolo della cultura critica come volano e come pelle comune da indossare diventa fondamentale. Le sinapsi della nostra intelligenza collettiva, oltre che individuale, avranno così di che masticare, facendo infine germogliare un'idea nuova e sostenibile di sviluppo: e questo non è solo un augurio, ma a tutti gli effetti un obbligo per sopravvivere (greenreport.it)
PS: non si può non essere d'accordo con quanto riportato in quest'articolo, ma non posso fare a meno di chiedermi anche: come riescono gli animali a mantenere naturalmente un loro equilibrio sostenibile cosa che questo uomo sapiens, con tutta la sua cultura, non riesce a raggiungere? Come mai pur essendo "culturalmente" più preparati dei nostri antenati siamo indubbiuamente più offensivi e lontani dalla sostenibilità di quanto lo fossero loro? Perché più sappiamo, o più crediamo di sapere, più ci allontaniamo da ciò che può essere ritenuto veramente sostenibile nel tempo? Qual'è la cultura che stiamo in realtà diffondendo? Quale il culto, di cosa ci prendiamo cura? (RG)
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