Nel 2008, in una nota del suo libro "Da A a X - Lettere di una storia" John Berger scriveva: «Un milione di lavoratori del Terzo Mondo. Demoliscono pezzo a pezzo le grandi portaerei e le navi di linea del Primo Mondo. Una volta messa in secco la nave e cavatone il legno e il materiale isolante, tagliano lo scafo con l'acitilene. Dove ci sono tracce di petrolio e benzina la fiamma rischia di provocare un'esplosione. Non indossano nessun indumento protettivo o quasi. Da 20 a 30 incidenti al giorno sulla spiaggia di Tossa. Paga giornaliera di un saldatore 1 dollaro».
E sulle spiagge di India, Pakistan e Bangladesh è ancora così, anche se un fatto inedito in questi giorni potrebbe essere il segnale di un cambiamento. Il Bangladesh ha fermato alle sue frontiere marittime l'ex Probo Koala, la nave tristemente famosa per aver scaricato nel 2006 centinaia di m3 di rifiuti tossici ad Abidjan, la capitale economica della Costa d'Avorio. Si è capito finalmente che il "cargo della vergogna" che era impossibile da localizzare perché gli armatori avevano disabilitato il suo Automatic identification system dal 3 giugno è ancorata nella baia di Halong, in attesa che si liberi un posto per il suo smantellamento in qualche spiaggia asiatica.
La Probo Koala é era stata ribattezzata "Gulf Jash" dopo la catastrofe ambientale e umana in Costa d'Avorio, che ha causato la morte di 17 persone e l'intossicazione di altre migliaia, dopo l'armatore ha pensato di demolirla perché nessuno voleva più che la nave dei veleni entrasse in porto. Naturalmente la scelta per lo smantellamento è ricaduta sui Paesi asiatici, poco attenti agli impatti ambientali delle attività di demolizione navale. Ma il 27 maggio il Bangladesh ha opposto un categorico rifiuto ad accordare all'ex Probo Koala l'entrata nel "cantiere" di demolizione di Chittagong. Una svolta, non solo per lo smantellamento delle navi, ma anche per l'esportazione dei rifiuti pericolosi versi Paesi che non hanno le strutture adatte per trattarle.
L'Associazione Robin des Bois, che ha avvertito le autorità di Dacca di quel che stava accadendo, sottolinea che «è la prima volta che una nave votata alla demolizione viene bandita in questo modo dalle acque del Bangladesh». L'Ong francese fa parte di un movimento internazionale contro lo smantellamento irresponsabile delle navi e la stessa Banca Mondiale nel suo rapporto "Ship Breaking and recycling industry in Bangladesh and Pakistan" del dicembre 2010 scrive che «il Bangladesh, sotto la pressione dei tribunali, impone progressivamente delle misure di prevenzione contro lo sversamento di sostanze tossiche nell'ambiente» e Robin des Bois conferma che «effettivamente, nel 2010, l'arenamento delle navi per la demolizione è stato vietato ad intermittenza da diverse decisioni delle Corti di giustizia, nell'attesa di misure di regolamentazione sulla protezione dei lavoratori e dell'ambiente».
Ma il 7 maggio, sotto la pressione della lobby dei demolitori, l'alta Corte di giustizia del Bangladesh ha autorizzato provvisoriamente la messa a terra delle navi in attesa di demolizione, chiedendo però il rispetto di alcune prescrizioni socio-ambientali come il divieto di impiegare minori di 16 anni e donne, di scaricare sostanze pericolose in mare o a terra, obbligo a tenere un registro del personale e di fornire equipaggiamenti protettivi individuali. Secondo Robins de Bois «l'Alta Corte ha dato tempo al governo per fissare regole applicabili alle attività di demolizione delle navi. Prima ha prolungato l'autorizzazione provvisoria fino al 7 luglio, permettendo ai cantieri di fare il pieno prima dei mesi del monsone, oggi si succedono gli annunci del topo "una politica di demolizione delle navi ben presto messa in campo", ma gli atti non seguono ancora». Ma il no all'ex-Probo Koala potrebbe segnare una svolta.
Delle 952 navi avviate alla demolizione nel 2010 (293 nel 2006), oltre il 90% vengono demolite in Asia e soprattutto in India (44%), poi ci sono Turchia (14%), Cina (13%), Bangladesh (11%), Pakistan (10%). E proprio il Pakistan, dal quale non filtra nessuna informazione, sembra la nuova Mecca dello smantellamento selvaggio delle navi. Il 38% di queste carrette dei mari appartiene ad armatori europei
Jacky Bonnemains, president di Robin des Bois che segue la demolizione delle navi da 10 anni e pubblica I dati sulla pubblicazione trimestrale "Alacasse.com", spiega si Novhetic che «Questi Paesi hanno molto meno difficoltà ambientali e sociali, eccetto la Turchia, e sono quindi in grado di pagare più cara la tonnellata di ferraglia che sarà recuperata sulle navi, nell'ordine da 440 a 500 $ la tonnellata in India, per esempio, contro i 300 $ in Turchia», Questo è possibile solo con condizioni di lavoro disumane d un inquinamento ambientale devastante, tanto che l'Organizzazione mondiale del lavoro classifica la demolizione navale come uno dei mestieri più pericolosi del mondo. In Asia nel 2010 nei cantieri" sono morti ufficialmente 46 lavoratori, 26 in Bangladesh, ma la Shipbreaking platform, una rete di Ong, sottolinea che la cifra vera è molto più alta e non comprende i decessi avvenuti per intossicazioni e malattie professionali. Secondo Bonnemains «in India e in Bangladesh per esempio, I cantieri praticano ancora l'alaggio delle navi sulle spiagge e lo smantellamento a mano e con la torcia. In India esiste una filiera migliore di eliminazione dei rifiuti tossici e un minor numero di esplosioni al momento dello smantellamento, ma è ancora largamente insufficiente».
Tutte la navi avviate alla demolizione, che hanno un'età media di 31 anni, contengono grandi quantità di sostanze nocive come l'amianto, resti di carburanti, pitture al piombo, altri metalli pesanti come il cadmio e arsenico, biocidi tossici, Pcb... Un inferno nel quale ogni giorno lavorano a mani nude migliaia di esseri umani.
La demolizione delle navi è regolamentata dal 1992 dalla Convenzione di Basilea sui movimenti transfrontalieri dei rifiuti pericolosi e la loro eliminazione ma riguarda solo i Paesi importatori e, malgrado il bando dell'Ue che vieterà di esportare la navi da demolire fuori dai Paesi Ocse, l'India ed altri Paesi non si sognano nemmeno di rispettarlo. Nel 2009, dopo 3 anni di negoziati con Onge d Oit, Convenzione di Basilea e Organizzazione marittima internazionale (Imo) hanno adottato la "Convenzione di Hong Kong per il riciclaggio sicuro ed ecologicamente razionale delle navi», un passo avanti importante, anche se lla responsabilità resta agli Stati (e alcuni innalzano bandire "fantasma") perché riguarda l'intero ciclo di vita delle navi, ma la Convenzione deve essere ratificata dagli Stati e quelli riciclatori" non permetteranno che entri in vigore per ancora diversi anni: per entrare in vigore ha bisogno di eseere ratificato da almeno 15 Stati e per iora lo hanno fatto solo 6.
Comunque la tendenza a rafforzare le regole e fatti come il respingimento della Probo Koala in Bangladesh, potrebbero spostare i pezzi di mercato più "sporchi" e spregiudicati verso il Pakistan e la Cina che si mostrano meno preoccupati per le ricadute ambientali e sociali della demolizione incontrollata delle navi.
Secondo la rete delle Ong la Ciina ha realizzato un pugno di cantieri "verdi" ma intanto il grasso dell'attività lo svolgono impianti ancora scarsamente regolamentati, il Pakistan sembra impenetrabile, ma le poche informazioni che filtrano lasciano intravedere condizioni di lavoro inenarrabili e pericolosissime, probabilmente le peggiori del mondo. Ma questa concorrenza sleale potrebbe portare il Bangladesh ad abbandonare la strada "virtuosa" appena intrapresa.
Secondo la Banca Mondiale, «I profitti fatti dall'industria e i volumi disponibili sul mercato sono tali che un modello di smantellamento più responsabile sarebbe del tutto percorribile in Bangladesh, senza ripercussioni nefaste sulla competitività dell'industria bangladese, né rischi di delocalizzazione».
Una convinzione non condivisa da Charlotte Nithart, che insieme a Bernard Dussol ha scritto il libro "Le cargo de la honte. L'effroyable odyssée du Probo Koala", «un certo numero di navi si rivolgeranno forzatamene verso il Pakistan e la Cina, dove la demolizione sarà, di fatto, meno onerosa. Da qui la necessità di un approccio internazionale alla questione e di una responsabilizzazione degli armatori europei ed americani». (greenreport.it)
|