Identificati i lecci sacri ai romani nel bosco di Monteluco

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Giovedì, 15 Dicembre 2011

 

MILANO - I vecchissimi lecci posti nella zona centrale del bosco di Monteluco nei pressi di Spoleto potrebbero essere gli stessi esemplari che componevano il bosco dedicato a Giove e sacro per gli antichi romani. Ma come è stato possibile testare questa ipotesi? «Innanzitutto basandosi sulle dimensioni eccezionali delle ceppaie che hanno un diametro maggiore di 3 m e dei cosiddetti polloni, cioè i cacci di piante tagliate tanti anni fa, che sembrano singoli alberi da quanto sono grandi», risponde Bartolomeo Schirone, ordinario di selvicoltura e assestamento forestale.

DATAZIONE - La disposizione geometrica ha dato inoltre il suo contributo nel riposizionare storicamente quest’area. Alcuni fusti oggi isolati facevano infatti parte di uno stesso cerchio di alberi: lo dimostra il loro patrimonio genetico identico. Da qui a pensare che appartenessero a millenarie ceppaie ormai disgregate il passo è breve. Quanti anni hanno? Le indagini dendrocronologiche che studiano gli anelli dei tronchi, la loro ampiezza e variazione, sostengono che risalgono a circa 500 anni. Segno che le ceppaie hanno un’età quattro volte superiore, intorno ai duemila anni. «La datazione con il C14 (carbonio-14), già usata per i fossili, costituirebbe la prova decisiva», dice Bartolomeo Schirone. «A tutt’oggi non è stato però possibile eseguirla per ragioni economiche». Si spera dunque nella sensibilità delle istituzioni che possano sovvenzionare questo ramo della scienza.

SCRIGNI DI BIODIVERSITÀ - Sui boschi sacri gli esperti hanno puntato ultimamente la loro attenzione perché sono serbatoi di biodiversità e perché attraverso le specie che vi si trovano si può ricostruire la storia passata della nostra vegetazione. In quello di Monteluco, a fianco dei lecci sempreverdi e delle specie arboree dominanti si trovano aceri, carpini bianchi, noccioli, meli e ciliegi selvatici, maggiociondoli, corbezzoli e arbusti come per esempio il ginepro, la ginestra, il rovo, il biancospino, il corniolo e il viburno, in armonico equilibrio tra loro, quasi a testimoniare quel silenzio e quella pace che da secoli li ha mantenuti intatti.

CENSIMENTO - Un censimento di quanti boschi sacri esistono nel nostro Paese non è stato ancora eseguito. Su base toponomastica si potrebbe tuttavia ricostruire una mappa e stabilire la loro distribuzione. Il lucus, in latino letteralmente «radura nel bosco dove passa la luce del sole», era infatti il bosco sacro per i romani. Con tale termine si ricordano il Lucus Angitiae, oggi Luco dei Marsi, consacrato alla dea Angizia dal popolo italico dei Marsi; il Lucus Maricae; il Lucus Vestae presente a Roma dietro alle case delle vergini vestali alle falde del Palatino andato in fiamme con il grande incendio del 64 d. C. Le etimologie lucus, luceri, luciniano, luconiano hanno pertanto a che fare con il concetto di bosco sacro. Nel Lazio se ne contano ancora oggi alcuni intorno a Nemi, a Viterbo, e in Abruzzo sulla Maiella. «Qui si possono trovare genotipi particolari che si sono evoluti sul posto e piante vetuste con età maggiore di quelle ritrovate in letteratura», precisa Bartolomeo Schirone. «Se sui libri il faggio può raggiungere al massimo 250 anni e il pino nero 200, in questi boschi toccano quota 600-700 anni».

LEGGE - Monteluco ha stimolato in particolare la curiosità degli studiosi perché nelle sue vicinanze è stata trovata anche la lapide su cui è stata scritta la Lex Luci Spoletina, il primo esempio di norma forestale, scritta in latino arcaico e risalente al III secolo a. C., da cui ha preso spunto l’odierna legislazione sulle aree protette. «Sebbene antichissima, conteneva tutti i concetti che servivano per rispettare la natura», dice Bianca Maria Landi, dottore in progetti ambientali e forestali a Firenze. «In essa veniva detto cosa era vietato fare, la pena prevista in caso di inosservanza e chi era preposto al controllo e alla riscossione della multa stabilita». Testualmente si legge: «In questo bosco sacro nessuno osi portar via alcunché». Tutto era intoccabile: gli alberi si potevano tagliare una volta all’anno in occasione di una sorta di sacrificio alla divinità. Chi non rispettava questo divieto doveva pagare 300 assi al dicator, il magistrato che secondo alcuni aveva una funzione esclusivamente religiosa mentre per altri era colui che doveva mettere in pratica la norma facente parte del diritto pubblico a tutti gli effetti. Coeva a quest’ultima era la Lex Luci Lucerina, che a un certo punto afferma: se il divieto viene violato, «chiunque ne abbia voglia» può richiedere un rimborso al trasgressore. «Sancisce il diritto della collettività che è un concetto incredibilmente attuale», dice Bianca Maria Landi. «Da poco tempo si parla infatti di diritti diffusi, di risarcimento ambientale e di ruolo della collettività come promotrice di azione e di risoluzione del danno». È del 1986 la legge istitutrice del ministero dell’Ambiente, nel cui articolo 18 si sottolinea come le associazioni ambientalistiche possano denunciare un danno ambientale. (corriere.it)

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