"La nuova guerra fredda? Si combatterà nell'Artico"

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Domenica, 17 Ottobre 2010

 

Sfiora i minimi storici del 2007 e 2008, e quest'anno la banchisa polare si assesta al terzo posto nei record negativi per estensione in trent'anni di misure satellitari. Il ghiaccio vecchio diminuisce, quello giovane è sottile e meno resistente: segno di un declino che perdura, secondo gli scienziati. Nei prossimi decenni l'Oceano Artico si trasformerà da un territorio sigillato e ostile in una frontiera per l'esplorazione di nuove risorse e per il trasporto. Così, ironicamente, il riscaldamento globale potrà generare una nuova guerra fredda, che sarà, neanche a farlo apposta, nel regno di iceberg e ghiacciai.

La conferenza, l'allarme

Il timore di una crescente instabilità tra i paesi circumpolari non è fantasia. E' per questo che la NATO, all'interno del Programma Scienza per la Pace e la Sicurezza, ha convocato un pool scelto tra scienziati, politici, strateghi presso lo Scott Polar Research Institute (SPRI, Cambridge). Che, insieme a rappresentanti delle popolazioni indigene polari, di organizzazioni ambientaliste, di multinazionali del petrolio (Shell international), formavano un team interdisciplinare riunito per discutere sulla sicurezza ambientale nell'Oceano Artico. L'incontro a cui hanno partecipato esperti di 17 paesi, si è concluso venerdi scorso.

Non una prova generale della spartizione della torta artica, però, ma un incontro "aperto al dialogo sui problemi di sicurezza internazionale legati al cambiamento climatico", spiega Paul Berkmann, direttore del Programma di Geopolitica dell'Artico presso lo SPRI. "Stiamo facendo il possibile per trovare un equilibrio tra interessi delle singole nazioni e quelli globali."

Anticipando l'incontro, in un'intervista rilasciata al Guardian l'ammiraglio James Stadyris, comandante supremo alleato in Europa, avverte: "Fino ad ora le dispute sono state gestite pacificamente, ma nei prossimi anni il cambiamento climatico potrebbe alterare questo equilibrio e innescare una corsa per lo sfruttamento delle risorse naturali, che saranno più accessibili".

"Siamo lontani dai tempi della Guerra fredda, quando la Russia aveva 150 sommergibili operativi nell'Artico, oggi sono solo 20", dice Igor Koudrik, della fondazione norvegese per l'ambiente Bellona. "Lo sfruttamento intensivo delle risorse sottomarine è ancora lontano, noi vigiliamo, comunque, su qualcosa che potrebbe accadere in futuro".

Ed è proprio la Russia a guidare la lista dei paesi interessati all'Artico. Le regioni polari forniscono il 14% del PIL, l'80% del gas naturale, il 90% di nickel e cobalto del paese, pur essendo abitate solo dal 2% della popolazione russa.

Rischi politici ed ambientali

Che ci sia fermento nell'artico lo dimostrano, per esempio, i continui test militari della marina militare russa. È stato appena avviato l'ultimo test di un nuovo sottomarino strategico, lo "Yury Dolgoruky", che lancerà il suo primo missile balistico Bulava in Dicembre nel Mar Bianco (i cui test nel 2009 divennero un caso internazionale 1).

I rischi per l'ambiente sono concreti. Alcune organizzazioni ambientaliste mostrano preoccupazione per i cargo carichi di materiale radioattivo inviati dalla Polonia verso l'impianto di rifiuti nucleari sulla catena degli Urali, in Russia. Bellona avverte che le navi abbandonano la cortina di sicurezza del porto di Gydnia in Polonia e circumnavigano la Norvegia fino al porto di Murmansk, praticamente invisibili ai controlli radar norvegesi (a causa della loro stazza), affrontando mari ostili e fornendo potenziali bersagli di attacchi (o sequestri) terroristici.

Ci sono, poi, il petrolio e i metalli. Crescono infatti le attenzioni dei governi verso il fondale marino polare, che potrebbe contenere il 25 per cento delle riserve petrolifere mondiali oltre a immensi giacimenti di gas e metalli. L'incidente della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico ha infatti mostrato che un disastro di simili proporzioni causerebbe danni ambientali ancora più drammatici in un ecosistema delicato come quello polare.

Secondo la Convenzione ONU per i diritti marini, i Paesi circumpolari dispongono di una zona economica esclusiva entro 370 chilometri dalle rispettive coste. Ma ciascuno Stato può avanzare richiesta di estensione e di sfruttamento se dimostra che la piattaforma continentale supera questo limite.

Così, mentre il governo norvegese ha appena stanziato 1,2 milioni di euro per uno studio di impatto ambientale connesso allo sfruttamento dei fondali intorno alle isole di Jan Mayen, la Russia ha concesso cinque nuove licenze (alle russe Gazprom e Rosneft) per lo sfruttamento di idrocarburi nel mare di Kara e di Barents. La distesa di ghiaccio polare, insomma, non è più quell'insormontabile ostacolo di un tempo. (Jacopo Pasotti - repubblica.it)

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