SAN FRANCISCO - E' possible che ripulire gli uccelli finiti nel petrolio che sta fuoriuscendo dal fondale del Golfo del Messico non sia solo inutile ma anche crudele? La domanda sta facendo il giro dei siti ecologici da quando il San Francisco Chronicle, il maggiore quotidiano della California settentrionale, ha sollevato la questione con una paio di editoriali. Una polemica che, per usare un'espressione cara agli americani, corre alla stessa velocità con cui il fuoco si diffonde nelle praterie.
Quello della riabilitazione dei volatili rimasti improgionati nel petrolio che esce dalla piattaforma DeepSea Horizon della BP è uno degli aspetti più importanti delle operazioni di salvataggio nel Golfo del Messico, e anche il più controverso. Sopratutto da quando, all'inizio di giugno, la biologa tedesca Silvia Gaus del "Wattenmeer National Park" ha dichiarato che è più umano eutanizzare gli uccelli finiti nell'olio nero che cercare di prolungarne la vita. Le dolorosissime operazioni di pulizia, secondo l'esperta, li farebbero soffrire inutilmente e non aumenterebbero affatto le loro possibilità di sopravvivenza.
A sostegno della propria tesi, la Gaus riporta i dati statistici delle operazioni di salvataggio condotte nella maggior parte delle fuoriuscite petrolifere degli ultimi 40 anni. "Secondo studi attendibili, gli uccelli ripuliti finiscono col soffrire più a lungo e fanno una morte molto dolorosa. Solo l'uno per cento è ancora vivo a un anno dal salvataggio e tra questi ben pochi riescono riprodursi", ha spiegato. E la durata di vita media non ha superato i sei giorni dal momento del rilascio.
Per confermare la tesi, la biologa ha anche citato un rapporto stilato anni fa dal WWF (World Wildlife Found), una delle maggiori organizzazioni ambientaliste del pianeta. Nel documento, che faceva seguito a un incidente avvenuto in acque spagnole, il WWF esprimeva dubbi sull'opportunità di ripulire gli uccelli finiti nel petrolio versato in mare dalla Prestige, una super petroliera naufragata al largo della costa galiziana rilasciano in mare oltre 60 milioni di litri di petrolio. Il WWF in realtà si è affrettato a emettere un comunicato cercando di rettificare la posizione assunta nel 2002, ma senza esprimersi né a favore né contro la posizione della biologa tedesca. L'organizzazione ambientalista ha comunque precisato che il Golfo del Messico è diverso da quello della Galizia e che è ancora troppo presto per stabilire con certezza se le operazioni di salvataggio aviario stiano funzionando o meno.
Rilanciata poi dalla CNN, da National Public Radio e dai maggiori media statunitensi, la discussione si è trasformata in breve in una tempesta mediatica che adesso coinvolge gli stessi ambientalisti, tra esperti che si schierano a favore e contro il salvataggio. Tra questi ultimi spicca Brian Sharp, ornitologo dell'Oregon e presidente di Ecological Perspectives, un'organizzazione ambientalista di Portland. Intervenendo sul Chronicle Sharp, che ha fatto una ricerca sull'impatto che il disastro della Exxon Valdez ha avuto sulla salute degli uccelli che popolano la Prince William Sound, Sharp ha affermato che solo il 10 per cento degli uccelli ripuliti e reintroddotti nel proprio ambiente naturale è riuscito a sopravvivere a un anno dall'incidente e che la maggior parte è morta nei primi otto giorni per blocchi renali, asfissia e altri sintomi di avvelenamento. Nel caso della Exxon Valdez, inoltre, la Exxon aveva sfruttato il fatto di aver salvato 800 uccelli al costo di 40 milioni di dollari per poter ottenere lo sconto di un 1 miliardo di dollari sulla penale da pagare.
"Ora - spiega Sharp - può sembrare che 500 mila dollari ad animale (a un anno dal disastro della Valdez ne sopravvivevano solo 800) siano tantissimi, ma non quando li si condiera alla luce delle multe di miliardi di dollari che il tribunale avrebbe potuto appioppare alla Exxon se non ci fosse stata la storia del salvataggio degli uccelli. E' comprensibile che i volontari vogliano salvare gli uccelli, ma bisogna essere realistici e considerare l'effetto che questi tentativi avranno sul progresso delle opere di pulizia ambientale e sui procedimenti legali che faranno seguito al disastro".
Diametralmente opposta la posizione di Michael Zaccardi, direttore di "The Oiled Wildlife Care Network" del Wildlife Health Center dell'università della California a Davis, e di Jay Holcomb, direttore dello International Bird Rescue Research Center, di Fairfield in California. I due ambientalisti, le cui organizzazioni sono adesso impegnate nelle operazioni di salvataggio nel Golfo del Messico, sostengono che coloro che critano gli sforzi si basano su dati vecchi e non tengono conto del miglioramento delle tecniche di recupero. I ricercatori sottolineano inoltre che, negli ultimi incidenti petroliferi, oltre il 50 per cento degli uccelli salvati sono ritornati al loro ambiente naturale. Addirittura, nel caso di una fuoriuscita avvenuta in Antartide alla fine del 1999, dei 12 mila pinguini salvati, ben il 95 per cento è riuscito a far ritorno ai ghiacciai. "Studi condotti di recente negli USA dimostrano che la percentuale di sopravvivenza degli uccelli recuperati ha raggiunto, in alcuni casi, anche il 60 per cento", afferma a sostegno di quest'ultima tesi Roger Helm, capo del dipartimento salvaguardia ambientale dello US Fish and Wildlife Service, l'agenzia che si fa carico del benessere delle speci animali negli Stati Uniti.
Ma il biologo J. V. Ramsen, curatore di biologia del museo delle scienze naturtali di Baton Rouge in Alabama, è scettico: "I tassi di sopravvivenza sono troppo alti, almeno nel contesto di questo incidente. Gli uccelli hanno ingerito una sostanza altamente tossica. Se i soccorritori riescono a dimostrare che il 25-50 per cento può essere ripulito e rilasciato senza morire a seguito di pene strazianti, allora dico 'okay diamoci da fare'. Per quanto sia penoso dirlo, se sopravvivono ok, ne vale la pena, altrimenti è meglio sottopporli a eutanasia. E i dati, per ora, danno torto ai soccorritori".
Fino a oggi nel Golfo sono stati recuperati poco più di 1000 uccelli, e di questi il 50 per cento è morto immediatamente. Del restante 50, solo 39 tra quelli ripuliti sono stati reintrodotti nel proprio ambiente naturale e tutti all'interno del Pelican Island National Wildlife Refuge, un'area protetta al largo della Florida. (repubblica.it)
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