Fuga anticipata delle rondini tradite dal clima impazzito

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Sabato, 5 Settembre 2009

 

MILANO - A settembre, in un tempo che ormai ci pare lontano, era normale vedere i prepa­rativi che le rondini facevano in previsio­ne del lungo viaggio che le avrebbe ripor­tate in Africa a svernare. C’era il richiamo e l’addestramento al loro primo viaggio dei nuovi nati; c’era il riunirsi in stormi vieppiù consistenti. I raduni premigrato­ri, li chiamavano gli esperti. Ma, a parte questi, chi ancora s’accorge, e forse addi­rittura ha nostalgia, dell’immagine bella di quell’affollarsi di rondini una volta consueta e ormai così rara? Quante sono, al giorno d’oggi, le persone che, per sensibilità e soprat­tutto per l’esperienza acquisita in tem­pi lontani, sa ancora percepire e legge­re i tanti piccoli segni — segni spesso d’allarme — che l’ambiente costante­mente ci invia?

In molte zone del nostro Paese sono, per esempio, scomparsi gli usignoli. Era una gioia sentirne il canto notturno bello e toccante. E chi ancora ha memoria dei concerti, pure notturni, dei grilli, o di quelli diurni delle cicale? Eppure i segnali sono, o almeno sareb­bero, chiari e forti, e proprio le rondini, al proposito, avrebbero molto da raccon­tarci. Perché loro sono animali straordi­nariamente specializzati. Anche se il de­clino di questi un po’ magici uccelli è ini­ziato ormai da molto tempo (e la Lipu, la lega italiana protezione uccelli, non ha mai smesso di allertarci) credo che tutti sappiano che le rondini si nutrono volan­do, tenendo il loro grande becco — una trappola naturale — ben spalancato. Eb­bene, se gli insetticidi hanno fatto fuori la maggior parte degli insetti volanti, op­pure, quelli rimasti, li hanno resi veleno­si, per le rondini c’è ben poco da fare. E lo stesso può dirsi per le loro notturne controfigure, i pipistrelli. Le rondini, ho scritto prima, sono ani­mali specialisti: hanno cioè messo a pun­to, nei tempi lunghi della loro evoluzio­ne, un raffinato, talora pressoché perfet­to, modo di stare al mondo, adattandosi a un tipo di ambiente prevedibile e stabi­le. E ho scritto «i tempi lunghi della loro evoluzione», perché si tratta di evoluzio­ne biologica, un processo che appunto è sempre lentissimo.

Ma ecco allora dove sta il problema: ebbene, il problema sta in noi, in noi Homo sapiens, una specie che, piuttosto straordinariamente, è in grado di cambiare il suo comportamen­to non per evoluzione biologica, ma cul­turale. Il che significa, tra l’altro, il saper de­terminare — e sempre più col passare del tempo — anche repentini cambia­menti ambientali. Così i cosiddetti am­bienti stabili e prevedibili, essenziali per l’evolversi degli specialismi biologi­ci, la smettono di essere tali. E gli ani­mali specialisti, come le rondini e i pipi­strelli, se ne vanno decisamente in cri­si. È la biologia, in parole povere, che non tiene il passo, sempre più rapido della nostra, spesso sconsiderata, evolu­zione culturale. Ecco allora che questo nostro tempo, che poi è tempo di crisi ecologica, segna il trionfo di quelle specie che sono l’op­posto degli specialisti, e cioè gli animali detti generalisti. Sono specie adattate a vivere in ambienti instabili e pertanto scarsamente prevedibili oppure, addirit­tura, a vivere la vita avventurosa degli animali colonizzatori. Specie, insomma, che in un modo o nell’altro se la cavano sempre. Furbe e opportuniste, con po­che regole scritte nel loro Dna e invece con raffinate capacità di apprendimento. Specie che, un po’ eufemisticamente, vengono denominate «problematiche», quali i topi e i ratti, i colombi, gli scara­faggi, anche i cinghiali, in un certo sen­so. Ebbene, queste specie, generalmen­te, occupano gli spazi lasciati liberi dagli specialisti sconfitti banalizzando così i differenti ambienti, un tempo ricchi dei cosiddetti «endemismi». Forme cioè che si trovavano, rendendoli l’uno dall’altro unici, ciascuna in un ambiente particola­re. Adatte ad esso e ad esso soltanto.

C’è, infine, un altro segnale che l’am­biente ci manda: la presenza di tantissi­me specie esotiche, installatesi perché sfuggite alla cattività o, peggio ancora, perché rilasciate per scopi venatori o di pesca. Che ci fanno, per esempio, i va­riopinti pappagalli che volano tra le pal­me di Palermo, di Genova, di Roma e di altre nostre città? E che ci fa nei nostri maggiori corsi d’acqua il siluro del Da­nubio, un gigantesco pesce-gatto? Ecco allora che, in questi casi, peraltro assai frequenti, la banalizzazione addirittura si internazionalizza e noi possiamo par­lare, a pieno titolo, di globalizzazione zoologica. (Danilo Mainardi - corriere.it)

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