Entro il 2048 quasi estinti i grandi pesci

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Domenica, 18 Ottobre 2009

 

WASHINGTON — Qual è la differenza tra guida­re un fuoristrada Hummer dallo smodato consumo di benzina e ordinare un sushi di tonno rosso in un ristorante? La risposta esatta è: nessuna, entrambe le azioni sono devastanti dal punto di vista ecologi­co. Come, si chiederà il nostro lettore, bruciare ossi­do di carbonio, aggravando l’effetto serra e il riscal­damento del clima, è la stessa cosa che mangiar pe­sce, dieta perfetta per rallentare l’invecchiamento? Duro da ammettere, è proprio così.

TONNI ROSSI - Poche creature degli oceani hanno la maestà dei grandi tonni rossi, siluri argentati e idrodinamici che possono arrivare a 700 chilogrammi di peso, 4 metri di lunghezza, eppur muoversi velocemente a oltre 40 chilometri l’ora. Ma il «Bluefin» ha anche un’altra caratteristica, la carne più buona del mon­do. E negli ultimi trent’anni un’armada sempre più tecnologicamente all’avanguardia e micidiale, fatta di navi e aerei da ricognizione, reti speciali, radar, sonar e perfino satelliti, ne ha decimato la popola­zione. Lo sterminio del tonno Bluefin è emblemati­co di tutto quanto c’è di criminale e distruttivo nel­l’industria della pesca nel mondo. Dove un’alleanza potente, fatta di multinazionali senza scrupoli, lob­bisti, governi compiacenti, consumatori irresponsa­bili e perfino accademici senza etica sta acceleran­do una catastrofe sistemica, con conseguenze incal­colabili per il pianeta.

LA FINE DEI PESCI- Finiranno i pesci? Non è più solo una domanda retorica. Secondo uno studio della rivista Science, in mezzo secolo siamo riusciti a ridurre del 90% la popolazione di tutti i grandi pesci preferiti dal mer­cato. Di più, se nulla accadesse, se le catture conti­nuassero a questo ritmo, entro il 2048, anno più an­no meno, tutte dicansi tutte le specie ittiche com­merciali avranno subito un «collasso» generale, nel senso che se pescherà sì e no il 10% dei livelli massi­mi, cioè quelli degli Anni ’80. Con le parole di Da­niel Pauly, scienziato e docente al Fisheries Center della University of British Columbia, «i pesci sono in grave pericolo e se lo sono loro, lo siamo anche noi».

IL SAGGIO - «Aquacalypse now» ha definito Pauly l’inquie­tante prospettiva, in un recente saggio pubblicato su The New Republic e dedicato alla «truffa» messa in atto sin dagli anni Cinquanta dagli uomini con­tro gli oceani e i loro abitanti. Uno schema predato­rio, rivolto all’inizio contro le popolazioni di mer­luzzi, pesci spada, naselli, sogliole e platesse del­l’emisfero settentrionale. Poi, man mano che queste famiglie si assottiglia­vano, le flotte si sono mosse sempre più a Sud, pri­ma verso le coste dei Paesi in via di sviluppo e da ultimo verso i fondali dell’Antartico, in cerca di spe­cie nuove e sconosciute. Quando poi i pesci di gran­de taglia e alto valore hanno cominciato a scompari­re, dai tropici ai poli non c’è stata più frontiera e limite: le barche hanno preso a catturare qualità sempre più piccole, mai in precedenza considerate commestibili per l’uomo. L’alleanza sciagurata de­gli interessi ha funzionato benissimo, alimentata da una domanda mondiale di pesce insaziabile e di­sposta a pagare qualsiasi prezzo, pur di avere le qua­lità più prelibate. Ma ora la lunga festa sta per fini­re. Nel 1950, secondo i dati della Fao, nel mondo si catturavano 20 milioni di tonnellate metriche di pe­sce e molluschi. Alla fine degli Anni ’80, il pescato mondiale raggiunse il massimo storico di 90 milio­ni di tonnellate. Da allora, è in declino costante. Co­me in una immane catena di Sant’Antonio, che ri­chiede i soldi di sempre nuovi finanziatori per paga­re i precedenti e rimanere in piedi, l’industria ha avuto bisogno continuamente di nuovi stock di pe­sce per continuare a operare. Invece di regolare pe­riodi e quantità delle catture, consentendo alle spe­cie di riprodursi e stabilizzare i livelli di popolazio­ne, è andata avanti fino all’esaurimento, spostando­si altrove e saccheggiando i mari. Se per l’Occidente ricco e affluente la fine dei pe­sci può sembrare una semplice disgrazia culinaria, per i Paesi emergenti, soprattutto nelle regioni più povere dell’Africa e dell’Asia, il pesce è la principa­le risorsa di proteine e una fonte di reddito per cen­tinaia di milioni di persone, piccoli pescatori e ri­venditori. E non c’è solo questo.

«EFFETTI COLLATERALI» - «L’impatto della riduzione della fauna marina sull’ecosistema degli oceani è stato del tutto sottovalutato», ammonisce Boris Worm, biologo dell’Università di Kiel in Ger­mania. «Fenomeni come l’esplosione della popola­zione di meduse e le alghe morte in molte zone co­stiere del mondo sono la diretta conseguenza della sparizione dei predatori dall’ecosistema marino», spiega Pauly, secondo cui la dinamica è aggravata dal progressivo riscaldamento dei mari. Eppure, l’Aquacalypse non è inevitabile. La buo­na notizia è che non è troppo tardi per scongiurar­la, a condizione che i governi si mobilitino. Ma quello necessario è un tipo d’intervento sofisticato e coraggioso, ben oltre l’imposizione di quote an­nuali, che comunque andrebbero strutturate in mo­do nuovo per esempio distribuendo «accessi privi­legiati » a un numero limitato di pescatori. Né basta una pur necessaria campagna di educazione dei consumatori, per incoraggiare prudenza e saggez­za di scelte. Illusoria è anche la promessa dell’ac­quacoltura, che secondo alcune statistiche fornireb­be oggi già il 40% del pesce consumato nel mondo. Intanto perché non c’è nessuna affidabilità sulle statistiche fornite alla Fao dalla Cina, che produr­rebbe già quasi il 70% del totale. Ma soprattutto per­ché, fuori dalla Repubblica Popolare, il settore pro­duce principalmente pesci carnivori, come il salmo­ne, nutriti cioè con olii e macinati di aringhe, sgom­bri e sardine: «Ci vogliono quasi 2 chili di pesci pic­coli per produrre mezzo chilo di uno grande — spiega Pauly —, è come rubare a Pietro per pagare Paolo. In Occidente l’acquacoltura è un lusso, dal punto di vista della sostenibilità globale». In realtà, aggiunge lo studioso, il punto centrale è scoraggia­re il complesso industriale della pesca, riducendo i sussidi: «Questo consentirebbe alla popolazione it­tica di ricostruirsi, mentre i miliardi risparmiati po­trebbero essere investiti nella ricerca per gestire meglio gli stock». Di più, «tocca ai governi dividere in zone l’ambiente marino, identificando le aree do­ve la pesca è tollerata e altre dove non lo è». Tutti i Paesi marittimi possono regolare i tratti fino a 200 miglia dalla loro costa, in base al Trattato del Mare dell’Onu: si tratterebbe quindi di creare un network planetario di riserve marine. Più facile a dirsi. Ma tant’è: «L’obiettivo minimo è ridurre del 50% la mortalità, per evitare l’ulteriore declino di specie a rischio», spiega Ransom Myers, biologo marino alla Dalhousie University in Canada. (corriere.it - Paolo Valentino)

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