«Salviamo il pianeta dal cambiamento climatico»: spesso sentiamo ripetere questa esortazione, soprattutto quando le questioni inerenti al surriscaldamento globale vengono trattate dai media in modo non organico (cioè con una visione del problema integrata tra gli aspetti sociali, economici ed ecologici), ma con una prospettiva «di settore», cioè in pagine stampate o elettroniche appositamente dedicate alle cosiddette «questioni ambientali».
Ma porre la questione in questi termini è fuorviante. Il “pianeta” (inteso come “il complesso degli equilibri ecologici” all’interno di quel grande ecosistema che è la Terra) va “salvato” semmai, dalla globalità di quelle azioni umane che praticano un prelievo insostenibile dal capitale naturale: il pianeta va salvato, cioè, dall’eccesso di consumo di suolo, dall’insostenibile tasso di riduzione della biodiversità, dalla frammentazione degli ecosistemi, e in generale da quell’intreccio di azioni umane che – se condotte in modo insostenibile – portano alla degenerazione degli ecosistemi, e di cui il surriscaldamento globale e il ruolo antropico in esso costituiscono solo una delle componenti.
Il cambiamento climatico in senso stretto, invece, può e potrà avere effetti devastanti sulle nostre società umane e il nostro sistema economico e produttivo, ma non è (almeno, non sarebbe teoricamente) un reale pericolo per la solidità degli ecosistemi: le popolazioni biologiche non umane, infatti (sia vegetali sia animali), hanno nel loro carniere la possibilità di migrare in conseguenza di cambiamenti climatici: se il calore aumenta si hanno spostamenti degli areali verso maggiori latitudini o altitudini, se si ha un raffreddamento gli areali si muovono in direzione contraria, cioè vanno verso i tropici (migrazione orizzontale) o scendono in basso dalle montagne verso la pianura (migrazione altitudinale).
Quanto scritto vale sia per gli animali (che hanno la possibilità di migrare sulle proprie gambe, con le proprie ali, con le proprie pinne natatorie), ma anche per le popolazioni vegetali, la cui migrazione è più lenta perchè avviene con la successione delle generazioni. Il meccanismo è complesso, ma in parole povere possiamo semplificare la questione così: immaginiamo un bosco naturale di abeti rossi (Picea abies), situato nella sua tipica nicchia ecologica, cioè (in Italia) la bassa montagna dai 1000-1200 fino ai 2000-2200 metri. E immaginiamo che avvenga un significativo cambiamento climatico (e c’è poco da lavorare con la fantasia, visto che è quello che sta effettivamente avvenendo) che aumenti la temperatura globale, e soprattutto quella della località dove è situato il nostro bosco di abeti.
Cosa avverrebbe? All’inizio si avrebbe una diminuizione della vigoria delle piante (ad esempio, causata da un aumento dei parassiti invertebrati), seguita dall’insorgere dei primi casi di mortalità. Successivamente, però, il bosco comincerebbe a “muoversi”: con l’aumento del calore si noterebbe cioè una maggiore nascita e crescita delle giovani piante in prossimità di quello che è il limite freddo dell’habitat che occupa, sia geograficamente, sia in senso altitudinale. E parallelamente avremmo un aumento della mortalità delle piante adulte (e una sempre più spiccata assenza di rinnovazione) dalla parte del limite caldo dell’habitat occupato dal bosco di abeti. Con la successione delle generazioni, e col proseguire del cambiamento climatico, alla fine il nostro bosco si sarà materialmente spostato verso nord, e verso l’alto.
Ma c’è un limite a questo: se il bosco di abeti rossi occupa un habitat troppo vicino al limite altitudinale superiore raggiungibile dalla vegetazione forestale (o al limite nord, in senso latitudinale), con un aumento di temperatura esso si estinguerà, mentre l’habitat che occupava sarà progressivamente occupato da specie vegetali adatte ad un clima più caldo, come ad esempio il faggio o l’abete bianco (Abies alba). E così avverrà davanti a qualsiasi altro tipo di ostacolo insormontabile che intralcia la migrazione, come ad esempio uno specchio d’acqua troppo ampio per poter essere superato con i mezzi di disseminazione propri della specie, compresi quelli anemocori, cioè che sfruttano il vento.
Cioè, in altre parole, la migrazione delle specie vegetali (e di quelle animali) prosegue, con i cambiamenti climatici, fino al momento in cui raggiunge un ostacolo insormontabile: e a quel punto cosa avviene? Avviene l’estinzione della specie. Quindi se pensiamo, invece che all’abete rosso, all’orso polare, possiamo prevedere che col crescere della temperatura esso si sposterà sempre più verso nord, “all’inseguimento” di quelle condizioni climatiche che sono tipiche della sua nicchia ecologica. E, quando e se il riscaldamento sarà eccessivo, esso si estinguerà definitivamente.
E qui arriviamo al punto: in linea teorica, e semplificando molto una questione che è ben più complessa, questa estinzione dell’orso polare a causa di un maggiore calore sul pianeta verrebbe controbilanciata, in termini di biodiversità, dalla probabile comparsa di nuove specie di orso a causa di mutazioni genetiche favorevoli avvenute nei climi più temperati. Cioè (ripetiamo: semplificando) possiamo attenderci che, per ogni sottospecie di orso polare che si estingue, dovrebbe affacciarsi alla vita una nuova sottospecie di orso nelle regioni tropicali, e il bilancio in termini di biodiversità resterebbe (dal punto di vista quantitativo) alla pari.
Ma quante volte abbiamo usato la parola “teoricamente”, in questa dissertazione? Molte, perchè questo equilibrio dinamico della biosfera davanti ai cambiamenti climatici avverrebbe solo in assenza degli ostacoli insormontabili (artificiali, cioè aggiuntivi a quelli naturali) disseminati sul pianeta da una specie molto invadente, e cioè la nostra. L’Homo sapiens sapiens, infatti, operando le sue trasformazioni nei confronti del resto del vivente con un ritmo e una pressione insostenibili, fa sì che la naturale migrazione degli areali biologici sia ridotta al minimo: per comprendere questo basta pensare alla frammentazione degli areali floro-faunistici che non è bilanciata da una adeguata rete di collegamenti ecologici, oppure alla diminuizione della biodiversità che continua a colpire gran parte delle foreste europee, al di là della (positiva ma insufficiente) generale tendenza all’estensione della superficie occupata dai boschi. In Europa abbiamo quindi, negli ultimi anni, sempre più superficie forestata, ma molto spesso si tratta di boschi assolutamente impoveriti nella loro complessità, con una capacità di reazione molto limitata davanti a fattori di stress come i cambiamenti climatici.
Ecco quindi che il surriscaldamento globale, che in teoria sarebbe un fattore di rischio per le sole società umane e non per quelle animali o vegetali, in pratica diventa un ulteriore fattore di impoverimento – sia quantitativo sia qualitativo – anche delle specie appartenenti al resto della biosfera. E il problema fondamentale è che molti dei cambiamenti che i sistemi biologici stanno subendo sono tra quelli che possiamo definire come “irreversibili”, proprio a causa del fatto che l’eccesso di pressione sulle risorse e sulle aree naturali fa sì che la naturale “sostituzione” dell’orso polare estinto con una nuova specie di orso in un biotopo più temperato, che abbiamo ipotizzato sopra, non può avvenire liberamente perchè gran parte delle nicchie ecologiche dove potrebbe innestarsi l’habitat della nuova specie sono occupate, o magari impoverite, dall’eccesso di invadenza della specie umana, cioè da quell’insostenibilità (dal punto di vista ecologico) che è insita nel nostro sistema sociale, economico e produttivo.
Per citare un dato riguardo all’impatto enorme del problema di cui abbiamo parlato, citiamo le stime presentate nel quarto rapporto Ipcc, che pone appunto l’estinzione delle specie animali e vegetali tra quelle conseguenze del cambiamento climatico che vanno considerate «irreversibili»: con una crescita di 1,5° – 2,5° C rispetto ai valori medi del 1980-1999, «il 20-30% delle specie analizzate finora saranno probabilmente a maggiore rischio di estinzione». Se il Gw supererà i 3,5°, invece, è stimata l’estinzione «dal 40 al 70% delle specie analizzate». Studi che – è chiarito nel rapporto stesso – hanno un’affidabilità «media» (cioè del 50%, valore scientificamente poco significativo), e che quindi devono ancora compiere enormi passi in avanti. Ma studi che illuminano comunque di una luce macabra il futuro, oltre che della nostra specie, anche di tutte le altre che occupano la biosfera. (greenreport.it)
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