provenienti da terreni situati alle alte latitudini
erano state finora ritenute «trascurabili» per
quanto riguarda l’impatto sul clima.
Attraverso misurazioni condotte nelle regioni di tundra incontaminata della parte nord-orientale del continente europeo, i ricercatori hanno scoperto che solo alcuni tipi di tundra non emettono quantità significative di N2O. I suoli di tundra crioturbati (Cryoturbated peat soil, cioè terreni particolarmente destrutturati a causa dei cicli di gelo e disgelo, e in cui spesso la roccia madre si trova direttamente esposta alle intemperie) sono invece fonti di emissioni degne di nota, che sono state calcolate in un range da 0,9 a 1,4 g N2O/mq da giugno a ottobre, valore che è «equivalente alle emissioni provenienti da suoli tropicali e agricoli».
L’estrapolazione di questi dati in riferimento all’intera regione artica rivela che «le emissioni da questi hot spots potrebbero aggirarsi su un valore di 0,1 Gt/anno, corrispondente al 4% del potenziale di surriscaldamento dato dalle attuali emissioni di metano».
Occorre ricordare che (dati: Ipcc) il protossido di azoto costituiva, nel 2004, il 7,9% di tutte le emissioni antropiche in termini di CO2 equivalente. La sua concentrazione in atmosfera è salita dalle 270 parti per miliardo (ppb) dell’era pre-industriale fino al valore di 319 ppb del 2005. Dal punto di vista del forcing radiativo (cioè, come noto, del contributo delle emissioni di questo gas alla fase di riscaldamento del pianeta rispetto alle condizioni precedenti al 1750) il protossido è considerato il quarto gas serra in ordine di importanza: il suo range di forcing radiativo stimato (da 0,14 a 0,18 W/mq) segue infatti quello della CO2 (da 1,49 a 1,83 W/mq), del metano (da 0,43 a 0,53 W/mq) e del gruppo dei cosiddetti alo-idrocarburi, il cui forcing è stimato da 0,31 a 0,37 W/mq.
Anche il quarto rapporto Ipcc stima che l’incremento dell’N2O in atmosfera sia causato «principalmente dall’agricoltura». Ed è proprio questo tipo di valutazione ad essere messo in discussione dal nuovo studio. Occorrerà adesso attendere per vedere se questa ricerca avrà ulteriori conferme da parte della comunità scientifica, o se si rivelerà un fuoco di paglia. Ciò che è certo è che le dinamiche legate allo scioglimento del permafrost sono ancora state comprese solo in parte: sotto la tundra c’è una bomba climatica pronta ad esplodere, come sappiamo. Una bomba la cui detonazione potrebbe peggiorare di colpo l’intensità del surriscaldamento. Finora abbiamo ritenuto che questa bomba fosse caricata con carbonio (legato all’ossigeno nella CO2 o all’idrogeno nel CH4), e oggi scopriamo che anche l’azoto può far parte della miscela di innesco. (Riccardo Mostardini - greenreport.it)
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