Lo indicano le ultime rilevazioni dei satelliti e ce lo ricorda Kathey Walter Anthony, ricercatrice della University of Alaska Fairbanks Water and Environmental Research Center, sull'ultimo numero dello Scientific American: la temperatura del permafrost in Siberia, nel Nord America, in Groenlandia e nell'estremo nord della Scandinavia sta aumentando. Di più. L'incremento delle temperatura sta accelerando. Ormai in superficie è a 1,5 °C talvolta solo a 1,0 °C dalla temperatura di fusione.
Non è una buona notizia. Perchè nel permafrost, il fango ghiacciato che copre il 20% della superficie solida del pianeta Terra, sono conservate qualcosa come 950 miliardi di tonnellate di carbonio, sottoforma di metano. Il metano, formula chimica CH4, è un gas leggero. E se quel ghiaccio sporco si scioglie - in alcune zone ha già iniziato a farlo - il gas vola su in atmosfera. E poiché ogni singola molecola di metano ha una capacità di catturare le radiazioni infrarosse e generare calore come fosse una coperta termica ben 25 volte superiore a una molecola di anidride carbonica (ma ormai dobbiamo rassegnarci a chiamarla, come vogliono i chimici, biossido di carbonio; formula chimica CO2), ecco che la fusione del permafrost nelle terre desolate del nord del mondo diventa un problema globale. Un'ulteriore spinta al cambiamento del clima e all'aumento della temperatura media del pianeta.
Kathey Walter Anthony calcola che il permafrost già oggi liberi in atmosfera dai 14 ai 35milioni di tonnellate di metano. Una quantità del 45% superiore a quella del recente passato. Ma soprattutto il permafrost è una fonte che sta accelerando le sue emissioni. E il contributo di questa accelerazione potrebbe non essere stato irrilevante nell'autentico boom della concentrazione di metano registrata in atmosfera. Oggi la molecola è presente in ragione di 1.800 parti per miliardo, contro le 700 parti per miliardo dell'epoca pre-industriale: un aumento del 160%.
Kathey Walter Anthony ci fornisce una mappa dettagliata del "permafrost a rischio". Con le zone dove, a causa dell'attuale aumento della temperatura media del pianeta, la fusione degli strati superficiali avverrà entro il 2050, le zone dove la fusione si verificherà con ogni probabilità tra il 2050 e il 2100 e le zone dove anche dopo il 2100 e una temperatura media planetaria superiore di 2 o 3 gradi a quella dell'era pre-industriale il permafrost resterà stabile.
Facendo un po' di conti sulla base di questa mappa se ne ricava che, entro il 2100, la fusione del permafrost rilascerà complessivamente in atmosfera una quantità di metano pari a circa 50 miliardi di tonnellate di metano, dal 20 al 40% superiore alla somma delle emissioni, naturali e antropiche, attuali. E da sola questa nuova, formidabile fonte di gas serra determinerà un ulteriore incremento della temperatura media del pianeta stimabile in 0,32°C.
Non è certo poco. Se si considera che questo aumento si somma a quello già previsto. E che soprattutto rende più attuale il rischio associato a un'altra fonte potenziale di metano, quella degli "idrati". Gli idrati di metano si trovano sia nelle profondità più estreme del permafrost, sia in mare. Le riserve a terra saranno difficilmente liberate entro il 2100. Ma la quantità di idrati presente negli oceani potrebbe essere meno stabile. Se la temperatura delle acque aumenterà, il rischio che una parte degli idrati si sciolga - come è avvenuto 55 milioni di anni fa - liberando metano in atmosfera non è affatto minimo. Si calcola che negli oceani vi siano almeno 1.000 miliardi di tonnellate di metano trattenuto dagli idrati. Se anche il 10% dovesse sciogliersi entro il 2100, libererebbe 100 miliardi di tonnellate del gas: il doppio di quanto si preveda farà la fusione del permafrost.
Che fare? Possiamo fare poco. Se non augurarci che gli sforzi per prevenire i cambiamenti del clima vadano ben oltre gli accordi di Copenaghen. E che la temperatura media del pianeta non faccia scattare i pericolosi grilletti nascosti tra i ghiacci artici e le profondità marine. (Pietro Greco - greenreport.it)
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