l’avvenimento c’è, è il fatto che ci siamo abituati
a considerare normale che la Fao comunichi che gli
affamati nel mondo sono cresciuti di circa cento
milioni nel 2009, oltrepassando per la prima volta
la linea del miliardo e raggiungendo il totale di un
miliardo e venti milioni. Un incremento dell’11% nel
2008, dovuto soprattutto all’aumento dei prezzi
delle derrate agricole conseguente alla crisi. Come
a dire che il problema si aggrava.
Non solo, ma si sta diversificando in un modo che non possiamo non definire bizzarro. Alla frazione di umanità che soffre la fame (e, come visto in un precedente articolo, la sete), si contrappone una robusta compagine di individui che sono in sovrappeso quando non obesi. Per parlare di casa nostra, i bambini italiani sono in sovrappeso per il 27%, ed obesi per il 14%.
Qualcosa del genere sta accadendo da tempo negli Stati Uniti in forma molto più marcata, e nelle grandi aree asiatiche che fino ad una decina di anni orsono erano sostanzialmente indenni da questo sottoprodotto della diffusione di un tipo occidentale di alimentazione. Ed è interessante sotto questo aspetto il saggio sulle tecnologie che sono alla base della creazione di nuovi tipi di alimenti (“The end of overeating. Taking control of the insatiable american appetite” riportato sul New York Times del 25 luglio scorso) nel quale il dottor Kessler, esperto Fda, ipotizza spesso in modo convincente che i produttori di cibi trasformati studino i meccanismi dell’accettazione e del gusto dei loro clienti per preparare alimenti cui non si resiste.
All’altro estremo le grandi organizzazioni preposte alla salute e all’alimentazione a guisa di vox clamans tentano con scarso successo di richiamare l’attenzione delle grandi potenze e delle multinazionali coinvolte sulla necessità di prendere sul serio in modo operativo i problemi connessi con la sottoalimentazione. Che non sono solo quelli di carattere diciamo così umanitario, ma coinvolgono anche la sicurezza, la politica, e la possibilità di conflitti ed instabilità.
Si discute molto soprattutto sulla variabilità dei prezzi, che hanno punte di salita molto elevate, il che porta a periodi di aumento della crisi alimentare, con conseguenti movimenti al limite della rivolta politica. Con in più un nuovo elemento di malessere, dovuto alla crescente richiesta di aree coltivabili legate alla politica energetica mondiale che reclama sempre maggiore spazio coltivabile da dedicare allo sviluppo di energie rinnovabili.
In questo contesto, l’idea che si possa destinare ai trasporti qualcosa che potrebbe essere impiegato nell’alimentazione fa una certa impressione. Soprattutto se si considerano le grandi resistenze che continua ad incontrare l’impiego di tecnologie genetiche nell’agricoltura, che porterebbe ad un significativo aumento dei rendimenti, ad una migliore utilizzazione dell’acqua e dei suoli, ad un minore impiego di pesticidi.
E, specularmente le difficoltà che incontra lo sviluppo dell’energia nucleare, che certamente non sottrae suoli coltivabili all’agricoltura e non crea problemi di emissione di gas serra. (Luciano Caglioti - ilmessaggero.it)
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