L'urlo muto e dolente dei contadini indiani

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Un dato sconvolgente che registra il silenzio colpevole dell'Occidente. Sono 150 mila i suicidi che si sono verificati a partire dal 1993. Fin troppi, per una società che cresce ad un ritmo dell'8% annuo. Per ogni contadino che si immola, altri sembrano intenzionati a non cedere

Ogni ora un agricoltore indiano decide di togliersi la vita e, questo, succede da più di 13 anni.

In 150.000 dal 1993 hanno deciso di urlare al mondo la loro disperazione.

Un urlo, però, muto che è routine in India ed indifferenza nel resto del mondo.

Un suicidio di massa che non può essere considerato come il gesto estremo di chi vigliaccamente decide di lasciare questa vita e tutti i suoi problemi ad altri, questi contadini lottano quotidianamente per la loro terra, lottano, però, contro i più grandi, i più forti.

Certo, un’economia che cresce con un ritmo dell’8% annuo deve affrontare cambiamenti problematici e delicati; deve, se vuole emergere, chiudere un occhio su alcuni inevitabili effetti negativi che lo sviluppo economico porta con sè. Ma che tristezza osservare come l’agricoltura, in ogni luogo ed in ogni epoca storica, debba essere sacrificata, immolata, in nome del progresso.

Ma vi può essere vero progresso quando per far spazio alle industrie migliaia di contadini vengono - oggi, nel 2007 - brutalmente cacciati dalla propria terra?

Vi può essere vero progresso se l’agricoltura ha perso - o meglio, non ha mai avuto - la centralità che le spetterebbe in ogni parte del mondo ed ancor più in India, dove il 75% della popolazione dipende ancora da essa?

Eppure la morte di 150 mila disperati – secondo i dati forniti dal Ministero indiano dell’agricoltura alla Caritas - dovrebbe pesare sulle coscienze, dovrebbe attivare chi di dovere nel cercare le cause vere di questa tragedia.

La verità, però, è che le cause si conoscono già, ma per il bene di una nazione in forte sviluppo su cui gli investitori di tutto il mondo hanno gli occhi puntati, i contadini possono anche continuare a morire nel silenzio delle loro campagne.

In fondo la causa di questa immane tragedia va cercata nel forte indebitamento che negli anni i contadini hanno accumulato. Colpa loro, dunque, e non certo di un sistema che, anzi, aveva messo a loro disposizione, tramite accordi India-Usa, le più moderne sementi geneticamente modificate per aumentere la produttività dei campi e ridurre i costi di produzione.

Se, poi, a conti fatti i costosi semi miracolosi forniti dalle poche multinazionali americane che operano in condizioni di monopolio, non hanno prodotto di più, anzi hanno causato una forte salinizzazione dei terreni, il prosciugamento e sovrasfruttamento delle falde, oltre ad una intensa contaminazione di pesticidi, il tutto accompagnato da un aumento dei costi produttivi ed al crollo dei prodotti agricoli, si può parlare solo di moderni flagelli.

Come si poteva prevedere che l’imposizione di una tecnologia agricola inadeguata, sia dal punto di vista economico che ambientale potesse avere delle conseguenze così disastrose?

Per ogni contadino che si arrende togliendosi la vita, altri sembrano intenzionati a non cedere, a non accettare passivamente le ingiuste prevaricazioni che gli arrivano dall’alto dei governi locali. Si registrano scontri ormai quasi ogni giorno tra attivisti del Partito comunista e contadini. La polizia a volte decide di intervenire ed altre volte, per paura di polemiche, resta immobile. I morti comunque si contano sempre.

Ma neanche i contadini morti ammazzati riescono ad urlare al mondo il proprio dolore ed il proprio disagio.

La morte collettiva come atto estremo di denuncia non preoccupa, non commuove, non fa riflettere; è una morte senza funerali, senza lacrime, senza senso.

Mena Aloia

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