Che l’Italia abbia un futuro nucleare o no è tutto da scoprire. Ma di sicuro il suo sistema industriale si candida a livello globale a svolgere un’attività remunerativa e anche ideologicamente corretta (da un punto di vista ambientalista) come è lo smantellamento delle centrali atomiche. Obiettivo: ripristinare il «prato verde» delle origini, secondo il modo di dire dei tecnici del ramo. È una cosa che va fatta con procedure delicate e rischiose, mettendo a frutto competenze tecnologiche specifiche, di cui nel mondo non sono molte imprese a disporre.
Il mestiere di becchini dell’atomo può far guadagnare moltissimo, il mercato potenziale è enorme: stanno per andare in pensione, in vari continenti, gli impianti costruiti negli Anni 70 e 80, prima del grande blocco dovuto alla catastrofe di Cernobil del 1986; la lunghezza della vita operativa delle centrali nucleari è paragonabile a quella lavorativa umana, cioè 30 anni, e si tratta di eventi programmabili a lungo termine, per cui sappiamo che saranno circa 300 i reattori che avvieranno la demolizione da oggi al 2020. Di questi, 70 nella sola Europa.
Il numero di siti radioattivi da decontaminare si fa ancora più elevato se si considera anche il centinaio di centrali elettriche atomiche che nel mondo hanno già esaurito il loro ciclo operativo, ma non sono state ancora smantellate e rimangono in piedi, come sarcofagi nucleari; e la cifra cresce ancora se si aggiungono agli impianti nucleari commerciali i centri di ricerca già in disuso o prossimi ad esserlo, e poi i reattori militari (inclusi quelli dei sottomarini e delle navi di superficie in disarmo). Conteggiare tutte queste cose eterogenee non è facile, ma non si rischia troppo di sbagliare azzardando un migliaio di grandi manufatti radioattivi la cui necessità di smantellamento è già attuale o prevedibile nell’arco di 20 o 30 anni.
Secondo una valutazione estremamente prudente della Sogin, che è la società italiana ex Enel (ora di proprietà del Tesoro) a cui sono state affidate le nostre centrali atomiche spente dal referendum del 1987, nei prossimi 4 anni il mercato dello smantellamento nucleare offrirà contratti pari a 2,1 miliardi di euro, di cui 0,8 in Europa. Ma si tratta solo di un primo assaggio, perché la distruzione di un reattore atomico con tutti gli annessi e connessi è una faccenda lunga: l’autorità nazionale americana competente calcola un periodo di 7 o 8 anni e di una spesa media equivalente a 220 milioni di euro. Questo in teoria. Nella realtà, spesso gli anni necessari si dilungano in svariati decenni (come è successo in Italia) e i milioni di euro diventano miliardi. Tenendo conto di tutto questo, l’amministratore delegato di Sogin, Massimo Romano, ritiene che «nei prossimi 10 anni a livello planetario per il decommissioning nucleare, cioè per lo smantellamento degli impianti e il trattamento del combustibile esaurito, saranno spesi fra i 40 e i 50 miliardi, e nei prossimi trent’anni 300 miliardi».
Nella demolizione delle centrali vengono coinvolti anche i costruttori, come Ansaldo o Westinghouse o General Electric o Alstom, perché smontare un apparato del genere, con migliaia di parti esposte per decenni alla radioattività e quindi impossibili da maneggiare senza costose protezioni, richiede una meticolosa preparazione partendo dai progetti di 40 anni prima; l’a.d. dell’Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, sottolinea che «proprio Ansaldo dispone di un know-how particolare, avendo messo a punto per prima un programma di riproduzione in 3D dei disegni a due dimensioni».
Stranamente, la procedura non coinvolge chi ha avuto la centrale in gestione per 40 anni. L’ingegner Giancarlo Aquilanti, capo della task-force nucleare dell’Enel (che non ha reattori nucleari operativi in Italia ma ne possiede in Slovacchia e adesso anche in Spagna, tramite l’ingresso in Endesa) spiega che «in tutto il mondo è previsto che le centrali al termine della loro vita operativa vengano cedute a un ente pubblico che si occupa del decommissioning. La compagnia pubblica o privata che ha gestito l’impianto deve consegnare tutta la documentazione, però nello smantellamento non interviene. Gestire e demolire sono due attività diverse».
Ovviamente 220 milioni di euro per ogni centrale da eliminare rappresentano un valore positivo per chi firma il contratto di smantellamento, ma dal punto di vista dei Paesi che utilizzano l’energia dell’atomo è un «quantum» economico da sottrarre alla convenienza complessiva di questa fonte nell’arco complessivo di vita degli impianti.
Chi paga? Pagano gli utenti finali. Aquilanti spiega che «durante la vita operativa della centrale atomica le compagnie che hanno l’impianto in gestione accumulano i soldi che saranno necessari allo smantellamento». In Italia, caso unico al mondo, le somme cumulate durante la vita operativa non sono state sufficienti, perché la medesima è stata troncata dal referendum, perciò il denaro necessario è stato reperito scremando un sovrapprezzo sulle bollette elettriche negli anni (anzi, ormai, i decenni) successivi in cambio di niente. Finora l’utente italiano ha pagato a Sogin a questo titolo 950 milioni di euro (dato ufficiale dell’Authority per l’Energia).
Incidentalmente va notato che gli ingegneri usano il termine «decommissioning» non come vezzo, tanto per usare una parola straniera, ma per sottolineare che è un’attività più complessa della semplice demolizione, si tratta di decontaminare. bonificare e spesso anche valorizzare i siti ex atomici, per esempio costruendo impianti per generare energia fotovoltaica (cioè dal sole) là dove c’erano i reattori nucleari, come farà la Sogin con i siti che ha in gestione.
Ma qualora in Italia il vento cambiasse e l’atomo tornasse di moda (un’ipotesi molto improbabile, nonostante il gran parlare che se ne fa) qualcuno degli impianti nucleari italiani potrebbe essere recuperato? In fondo la Sogin ha annunciato che in tutti questi anni, dal 1987 a oggi, ha demolito solo il 6% delle centrali chiuse che ha avuto in affidamento, e prevede di arrivare al 28% nel 2011. Prendendo le cose con tanta flemma, non ci sarà tempo per ripensarci e recuperare almeno la centrale di Caorso, che nel 1987 aveva appena finito il rodaggio e fu spenta quand’era nuova?
Di per sé la cosa è fattibile. Negli Stati Uniti sotto la spinta della crisi energetica stanno facendo ripartire degli impianti bloccati da 10 o 15 anni, quindi per un tempo più breve rispetto a Caorso ma paragonabile. Tuttavia l’ipotesi non entusiasma i tecnici italiani. La Sogin, che ha smantellato Caorso al 9%, vuole accelerare al 40% entro il 2011 (punta quindi a fare più in fretta che per la media degli impianti). Aquilanti dell’Enel valuta che «ripristinare Caorso potrebbe richiedere 3 anni per l’iter autorizzativo e 5 per i lavori di adeguamento. Quindi 8 anni contro i 10 o 12 che servono per costruire una centrale ex novo. Può essere conveniente, ma sarebbe più complicato che costruire un reattore nuovo, perché, ad esempio, bisognerebbe mettersi a cercare produttori di componenti che magari nel frattempo sono falliti, o adattare parti nuove a un impianto pensato con una tecnologia di 30 anni fa. Oltretutto, Caorso ha una potenza di 800 MegaWatt mentre oggi se ne realizzano da 1000 o anche 1600 MW. Se interessa davvero, ci vorrebbe uno studio approfondito. Ma non dico che non si possa fare». (Luigi Grassia - La Stampa)
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